Dal divorzio al biodistretto: se il quesito non scalda i cuori

Ho votato all’ultimo referendum per l’istituzione su tutto il territorio agricolo trentino di un distretto biologico, o biodistretto. L’ho fatto per senso civico, pur essendo convinto di due cose. La prima: che l’adesione sarebbe stata bassa, perché poche persone ne erano a conoscenza, compresi i professionisti dell’informazione, molti dei quali, come il sottoscritto, sospetto ne abbiano sentito parlare solo quando hanno saputo dell’inizio della par condicio (cioè delle limitazioni a cui la comunicazione è sottoposta in prossimità di una scadenza elettorale). La seconda: che il quesito non scaldava i cuori, nonostante i bio distretti siano una realtà ben nota ai produttori biologici in Italia e che alcuni territori in Trentino siano già classificati come tali. 

In ogni caso, se anche questo referendum aveva il valore di un puro segnale “soft”, che non spaventasse troppo il mondo sul quale una vittoria del sì avrebbe eventualmente impattato, quello agricolo – in fondo impegnava solamente la Provincia ad assumere una serie di iniziative che andassero nella direzione del bio – è un peccato che abbia suscitato così poche attenzioni. Perché il tema era importante, considerato fra l’altro che il Trentino non brilla, fra le regioni italiane, per produzione biologica. 

Il referendum è uno strumento da maneggiare con cura. Quando entrò nelle vite di noi italiani, negli anni ‘70 del secolo scorso, sembrò obiettivamente una vittoria della democrazia. La “madre di tutti i referendum”, fu quello sul divorzio, il cui contenuto era inequivocabile: volete o non volete che in Italia sia possibile divorziare? Sì o no, punto (poi i boomer ricorderanno anche tutta l’annosa questione del “votare no per dire sì” e viceversa, ma quella è un’altra storia).

I Radicali fecero del referendum uno dei capisaldi della loro politica. Fino ai tardi anni ‘90 il quorum fu quasi sempre raggiunto, con poche eccezioni, fra cui i primi sulla caccia, nel 1990. Nel ‘97 la svolta, anche a causa di quesiti che erano palesemente lontani dalla vita della maggioranza delle persone (pensiamo a quello sull’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti). Da lì, l’inizio del dibattito sulla riforma dello strumento, senza però snaturarlo.

Ricordo una delle mie prime lezioni all’università, facoltà di Scienze Politiche, un corso di diritto: “voi probabilmente pensate che chiedere ai cittadini cosa ne pensano sarebbe sempre la cosa più giusta da fare – disse il professore – ma siete sicuri che porterebbe sempre alle decisioni migliori?” Pensate a un referendum sulla pena di morte subito dopo la scoperta di un delitto particolarmente odioso (oggi anche ad una strage terroristica): non credete che sull’onda dell’emozione la maggior parte dei votanti direbbe “viva la pena di morte!”, per poi pentirsi una settimana dopo?

Beh, se penso ad esempio a come è andata con la consultazione sulla Brexit credo che il professore avesse ragione. 

Alcune volte il referendum si rivela una strana bestia, e smentisce quello che suggerivo sopra, ovvero che il quesito dovrebbe essere chiaro e dirimente. Nel 1991, Mario Segni propose un referendum molto tecnico, ma Bettino Craxi, che era ormai sulla china discendente, invitò gli italiani ad andare al mare anziché a votare. Risultato: una valanga di voti, l’inizio della fine del craxismo. Qualcosa di simile è successo con il referendum costituzionale sulla cosiddetta riforma Renzi-Boschi, nel 2016. Il tema principale, il superamento del bicameralismo paritario, in realtà aveva il suo perché. Ma prevalse l’antipatia generale nei confronti dei promotori della riforma, oltre ai contorni poco chiari di ciò che sarebbe subentrato in caso di vittoria dei sì (non ad esempio una Camera delle Regioni, considerato che la riforma di Renzi aveva un carattere centralista). Ultimo referendum importante in Italia quello, confermativo, del settembre 2020, dopo la prima ondata di Covid, per la riduzione del numero dei parlamentari. Esito scontato, vista l’antipatia del “popolo” nei confronti dei politici, oltre al fatto che lo sostenevano quasi tutti i partiti. Un lieve sentore, diciamo, così, populista?

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.