Quando, tra il 1963 e il 1967, uscirono I maestri del colore per i tipi di Fabbri, mi chiesi perché l’arte dovesse iniziare con Giotto. E prima? Crescendo la scuola mi rimandava questo dato: con Giotto inizia l’arte italiana e, in generale, l’arte con l’A maiuscola. Quello che era avvenuto prima era definito sui testi canonici arte barbarica, i balbettii dell’arte, gli anni bui, ecc.. Eppure io ero affascinato dall’arte e dall’architettura romanica. Quando potevo scappavo a vedere la chiesa di San Lorenzo a Trento: entrare era come camminare in un’aula buia, dove la notte era interrotta da fasci di luce che, come sciabolate, attraversavano la navata e qualcuno di questi colpiva l’altare. Il soffitto era un cielo sovraffollato di stelle splendenti. Lì, seduto, mi sentivo al sicuro, protetto. E ancor oggi ritengo l’arte romanica e quella gotica la vera arte sacra, l’arte che presiede alla grande civiltà del medioevo, una civiltà religiosa, culturale e artistica che preannuncia l’unità europea: la piccola chiesa romanica la trovi in Portogallo come nella Cechia, in Inghilterra come, sottostando alle regole ortodosse, in Grecia e in Moldavia. L’arte romanica fu infatti l’ultima, se non l’unica in senso assoluto, esperienza artistica fortemente omogenea che si diffuse su tutto il territorio europeo, un’arte che ha segnato in modo indelebile città e campagne.
C’è un libro che mi ha aperto gli occhi e la mente sul medioevo, che mi ha trascinato – ancor oggi lo rileggo continuamente – lungo le strade europee, sognando e calpestando sentieri che conducono a vedere piccole cappelle in luoghi selvaggi o grandi cattedrali che ti travolgono e ti fagocitano, tanta è la ricchezza simbolica: I simboli del Medio Evo, di Gérard de Champeaux e Sébastien Sterckx, con le splendide fotografie di Zodiaque, in bianco e nero e qualcuna a colori, quest’ultime stampate nel monastero di Sainte Marie de la Pierre-qui-Vire a St. Léger-Vauban (Francia), edito in Italia da Jaca Book nel 1981. Quasi cinquecento pagine di carta giallina, che già di per sé è un invito al viaggio, ci aprono non solo le porte sulla dimensione simbolica nell’arte del medioevo, ma soprattutto ci aiutano a riconoscere una vera e propria modalità di rapporto con il reale che quella civiltà ha vissuto e trasmesso ai secoli successivi. Sono sguardi diversi da quanto avverrà a partire da Giotto e con il Rinascimento, espressioni prerinascimentali nelle quali la sensibilità così poco razionale e per certi versi sconcertante ci permette di evocare la misura di uomo in rapporto con il mondo di sopra. Il pensiero simbolico è un vero e proprio linguaggio che ci rivela determinati aspetti della realtà, forse quelli più profondi e veri, luoghi in cui la razionalità abdica e lascia il passo al camminare e al vedere con il “cuore”, che ci fa partecipi di una umanità che trascende le diversità di razza e di cultura, che ci introduce nel regno della bellezza, di quello splendore inafferrabile che oggi tanto rimpiangiamo.
Il libro affronta tematiche generali: il cielo, il tempio e il cosmo, l’ascensione e le altezze, l’uomo, l’albero, il tetramorfo, permettendoci di entrare lentamente in questo mondo medioevale che, nonostante tutto, ancor oggi perdura nelle nostre anime e in certi comportamenti ideali che ci salvano dal cadere inevitabilmente nel girone infernale della modernità e del pensiero economico. Il simbolo è polivalente e già di per sé è sintomo di un’estrema libertà che l’univocità del pensiero razionale non ci permette di frequentare. Giochi di corrispondenze, di analogie, di rimandi e di contaminazioni ci aiutano a capire che il Sacro è percorso da infinite vie e che, giustamente, si ribella alla religiosità che a partire da Giotto in poi ha ridotto l’arte a maestria matematica tranciando i legami con ciò che sta sopra di noi.
Un libro da leggere e rileggere tutto d’un fiato, da tenere lì sul comodino e, in caso di pericolo, aprire per lasciarsi trasportare dalla parola e dall’immagine.