Uno dei malintesi più diffusi tra la popolazione generale in merito alla navigazione internet è che essa sia più o meno uguale per tutti. Eppure non è così. Algoritmi, input pubblicitari, «bolla» di contatti, fanno in modo che ciò che vediamo online sia sensibilmente diverso per ciascun navigante. A ciò si aggiunge la manipolazione operata da governi autoritari che controllano applicazioni molto popolari. È il caso di TikTok: l’app è sviluppata in Cina da un’azienda controllata dal regime di Pechino. Ed è davvero singolare come i contenuti su TikTok in Occidente ed in Cina siano diversi. Da noi, TikTok è usato spesso dai giovanissimi per condividere contenuti demenziali: balletti sessualizzati a dispetto dei limiti d’età, battaglie videoludiche, sfide estreme, teorie del complotto. In Cina, invece, vengono promossi argomenti scientifici e tecnologici nonché messaggi politici consoni al verbo del partito comunista. L’obiettivo cinese è quello di plasmare la gioventù all’«alto ideale» maoista. Dalle nostre parti, al contrario, l’algoritmo promuove contenuti che sembrano mirare in maniera deliberata al rincretinimento degli utenti. Per non parlare delle violazioni della privacy: milioni di giovani europei spediscono volentieri i loro dati personali nei server di Pechino, dove di sicuro non valgono le rigide normative sulla sicurezza del Vecchio continente. Insomma, se vostro figlio vuole «fare un TikTok», tenete presenti i rischi. E il fatto che «tutti i compagni di classe lo usano», non deve esimerci dalla giusta sorveglianza, meno tossica di quella del Grande Fratello cinese.
Vi è poi un tema gigantesco, quello del cosiddetto cyberbullismo: termine ormai svuotato di significato. Non ha più nulla di «cyber»: un’aggressione online è reale come quella che si consuma a cazzotti e ingiurie. È forse peggiore perché le tracce delle aggressioni fatte sui social rimangono per sempre. E non ha nulla del «bullismo» tradizionale, quello che si consuma tra i banchi di scuola. Si tratta di linciaggi: atti di odio, di derisione, di violenza e umiliazione operati da individui che a centinaia si scatenano contro una vittima. Le conseguenze sono indicibili. Arrivano fino all’autolesionismo e al suicidio. Come nel recente caso del tiktoker Vincent Plicchi, seguito da 300mila utenti per i suoi video in cui si esibiva in sessioni videoludiche. Era stato accusato d’aver scambiato messaggi erotici con una ragazza diciassettenne che si era finta maggiorenne. Probabilmente l’obiettivo di lei (e del suo fidanzato, complice del piano) era ricattare Vincent. Una volta svelata l’accusa, è partita una gara diabolica al commento più feroce, alla derisione disumana nei confronti del 23enne bolognese. La folla gli ha attaccato l’etichetta più infame, quella di «pedofilo». Qualcosa si è rotto nella mente di Vincent e sotto di lui si è aperto un abisso. Ha deciso di togliersi la vita in diretta su TikTok. Quella stessa piazza virtuale dove aveva trovato divertimento e fama, è stata anche il teatro della sua fine. Ha rinunciato alla riservatezza in un ultimo atto di disperazione. Cosa può fare la società per raddrizzare questi social che da antidoto alla solitudine possono trasformarsi in una trappola mortale? La domanda resta aperta, angosciosamente senza risposta.