Mio nonno e David Bowie

“L’8 gennaio  David Bowie compirà 77 anni”. Giuro! L’ho letto da qualche parte, su un blog musicale, mi pare. C’era scritto proprio così: “compirà”. Ho controllato più volte: il giornalista non  intendeva “avrebbe compiuto se…”, ma proprio “compirà”, futuro presente. Naturalmente sul mio sensibile cervellino la cosa ha avuto l’effetto di un mini millennium-bug. Mi ha fatto riflettere (per la cronaca sono capace di farlo su tutto, perfino sul puzzone di Moena, su una chiave inglese o su un campanile che batte le tre). 

A parte gli scherzi, la notizia del “compleanno” di David Bowie ha ridato forza ad un’idea che mi accompagna fin dai primi anni dell’adolescenza. L’idea è la seguente: la morte è davvero tanto assoluta e definitiva come tutto sembra voler farci credere? 

Cerco di spiegarmi raccontandovi un aneddoto un po’ personale, che mi riporta ancora più indietro, al 1977. Ho nove anni. L’11 dicembre mio nonno Giuseppe muore all’improvviso. Nonostante prima del funerale ne osservi attentamente il cadavere (la morte allora non la si nascondeva, nemmeno ai più piccoli) non riesco ad accettare la sua scomparsa, o meglio il mio cervello punta i piedi e si rifiuta categoricamente di crederlo. 

Nei giorni seguenti allora, nel segreto del mio lutto di sconsolato nipotino, pur di dare una spiegazione razionale all’accaduto, comincio a tessere l’ordito di complicate teorie complottistiche, in virtù delle quali, per ragioni che lì per lì mi rimangono oscure, l’estinto sia stato in realtà “rapito”. Da chi e per quale motivo sono particolari evidentemente irrilevanti. In quelle settimane, ogni volta che suona il citofono di casa io sobbalzo e comincio a tremare. Perché non ho dubbi a riguardo: giù di sotto ci sono “loro”, i “rapitori del nonno”, venuti a chiedere il riscatto.

Il fatto è che nella mia logica bambina il non vedere più il nonno non significava che lui fosse morto, scomparso, sepolto sotto tre metri di terra, ma solo che io non lo stavo vedendo. La morte era la condizione necessaria di una tale assenza, ma non era sufficiente. Non bastava affermarlo. Non bastavano i manifesti funebri, che nel frattempo cominciavano a scolorire. Non bastava la sua sedia irrimediabilmente vuota a tavola, durante il pranzo domenicale. Insomma mi mancava qualcosa: il necessario nesso causale tra la morte e la contemporanea sparizione del nonno.

David Bowie, ma anche Andy Warhol, Italo Calvino, Gianni Brera: nome e cognome di personaggi oggettivamente non più in questo mondo, ma che nella mia mente – chissà perché, ancora oggi che mi avvicino ai sessanta – sono ancora vivi. Ovvero, i neuroni qui sopra non sono tutti concordi nell’accettarne l’assenza definitiva. So che è pazzesco, ma – tanto per dire – se oggi all’improvviso vedessi comparire in tv Andy Warhol che dice la sua sulla prossima candidatura di Donald Trump, o se venissi a conoscenza dell’uscita di un nuovo romanzo di Calvino, o se leggessi un pezzo del Giuanin nazionale su – chessò – “Il calcio può fare a meno degli sceicchi?”, probabilmente non mi stupirei più di tanto. Anzi, avrei la conferma delle mie segrete supposizioni e, nonostante un modesto stato confusionale iniziale, tirerei finalmente un sospiro di sollievo. Ogni dubbio sarebbe sciolto, alfine. Sarebbe la conferma che anche mio nonno, ormai ultracentenario, è ancora nelle mani dei rapitori, in attesa di questo benedetto riscatto. Un’illusione, ovvio. Un oscuro vuoto ontologico capace, però, di consolare.

D’altra parte, come possiamo essere certi che l’albero che cade nella foresta faccia effettivamente rumore se non c’è nessuno ad ascoltarlo? Qualcuno forse si sorprenderà nello scoprire che il rapporto tra osservatore e realtà non è solo il fesso dubbio di un bimbo nel dicembre 1977, bensì uno dei più grandi enigmi della meccanica quantistica. Domandarci dove si trova una particella prima o dopo averla osservata è una domanda priva di senso perché è lo stesso atto dell’osservazione a determinarne una posizione e, quindi, l’esistenza. In pratica, la particella esiste proprio per il fatto che la guardiamo! Come dire che la realtà è determinata in via esclusiva da chi ci è immerso. 

È come se il vostro lui o la vostra lei uscissero di casa, chiudendosi la porta alle spalle: scomparendo alla nostra vista, per la meccanica quantistica, non avremmo certezze sul fatto che continuino effettivamente ad esistere. Così per tutto il resto, quel che c’è lì fuori: le case, il supermercato, le automobili, il municipio. Un dubbio sagace che può spingerci a riaprire la porta per verificare subito di persona se…

E se fosse solo merito della convinzione? La fortissima convinzione di ritrovare tutto esattamente come ce lo ricordavamo? Una convinzione talmente intensa e radicata da trasformarsi non nella nostra idea di realtà, ma nel suo stesso nucleo. La vediamo, sì, la possiamo anche toccare, ma solo un infinitesimo di secondo dopo averla forgiata nella nostra fervida immaginazione. 

Allora, buon compleanno, David! Recensirò l’ultimo romanzo di Italo! Andrò a vedere la nuova mostra di Andy a Londra! Lunedì voglio leggere l’editoriale di Brera! E tu, Giuseppe Squicciarini, classe 1915, non fare finta di niente! Su, tieni duro, nonno!  Ovunque tu sia. La richiesta di riscatto è oramai imminente…

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.