Monaci contro

Eruzione dell’Etna del 1536-1537, incisione acquerellata

Erano uomini rari. Addestrati al silenzio e al digiuno. Chiamati fin dalla più giovane età a confrontarsi con un modello di perfezione irraggiungibile. Perciò, anche se non condividi le loro opinioni sulla vita ultraterrena e sul modo di guadagnarsela, finisci per ammirarli.

Percorrendo l’autostrada del Sole in direzione nord, poco dopo il confine col Lazio ti basta alzare lo sguardo e vedi Montecassino. L’abbazia c’è tutta, ma sai che non è quella vera: pensi subito ai bombardamenti alleati che in poche ore, il 15 febbraio del ‘44, annientarono quattordici secoli di storia. Questa enormità fa impallidire ogni altra sciagura che può essere avvenuta in quei paraggi prima e dopo quel giorno. Incluso lo psicodramma che si consumò in tutto l’ordine benedettino verso la metà del Cinquecento, a partire dal momento in cui i frati domenicani osarono lanciare sui monaci cassinesi l’accusa più infamante per un uomo di fede: eresia. Fu uno scontro al calor bianco che si combatté per molti anni e senza esclusione di colpi, sulle pubbliche piazze e nel silenzio dei chiostri: da una parte i seguaci di Tommaso d’Aquino, dall’altra gli eredi di Benedetto da Norcia. La vicenda è molto intricata ma si può raccontare anche così.

Una guerra ideologica non dichiarata è già in atto da tempo quando, nella tarda primavera del 1545, il Capitolo generale della congregazione cassinese si riunisce a San Benedetto Po, nelle bassure del ducato di Mantova, per nominare i tre rappresentanti dell’ordine benedettino da inviare al concilio di Trento. Risultano eletti l’abate di Pomposa, Luciano degli Ottoni; l’abate di Gaeta, Crisostomo Calvini; e l’abate di Cesena, Isidoro da Chiari. I tre si mettono in viaggio, arrivano nella piccola città alpina il 18 giugno e trovano ospitalità in casa di Francesco di Castellalto, capitano imperiale.

Luciano degli Ottoni arriva a Trento già in odore di eresia, a causa di un suo scritto sul libero arbitrio e sulla predestinazione: il libello fa molto discutere i padri conciliari, specialmente perché vi si mette in dubbio l’esistenza del fuoco dell’inferno. Queste opinioni vengono pubblicamente contestate da un dotto domenicano, Domingo de Soto, professore di teologia all’Università di Salamanca. Il benedettino non si fa intimidire e il 23 novembre 1546 prende la parola in assemblea sul tema della giustificazione, sostenendo una tesi molto vicina a quella luterana. Le sue parole suscitano la reazione dell’inviato del papa, il cardinale Giovanni Maria Del Monte, che interrompe bruscamente il suo intervento chiedendo spiegazioni. L’indomani l’abate di Pomposa è costretto a ritrattare le sue tesi: viene riammesso ai lavori conciliari, ma da quel momento diventa un sorvegliato speciale. Poco dopo dovrà cambiare alloggio e si trasferirà nel palazzo del notaio Bonaventura Calepini.

Ottoni è in contatto epistolare col duca di Ferrara, Ercole II d’Este, che per un certo periodo lo protegge. Anche il cardinale Ercole Gonzaga si interessa di lui, essendo suddito mantovano. Nel 1547 il concilio si trasferisce a Bologna ed egli lo segue, finché nel maggio del 1549 viene chiamato dalla sua congregazione a guidare la grande abbazia di San Benedetto Po. Nella nuova sede rimane in carica solo un anno perché viene accusato di comportamenti sospetti: difende apertamente le tesi di un eretico, tale Giorgio Siculo, e nello scriptorium lascia circolare libri proibiti. Deposto dalla carica, viene confinato all’abbazia di Praglia, dove rimane in attesa del processo inquisitoriale che si sta istruendo ai suoi danni. Il 6 dicembre 1550 scrive al cardinale Gonzaga e lo rassicura: “Mai trovaranno che io habbia detto né fatto cosa che sia contra la Chiesa”. Infatti nel gennaio del 1552 viene assolto, ma deve trasferirsi nel monastero del suo ordine a Santa Croce di Campese, presso Bassano, dove muore lo stesso anno, ormai ridotto al silenzio.

Giorgio Rioli, meglio noto come Giorgio Siculo, è un monaco benedettino pieno di fervore, con una spiccata predisposizione alla dialettica. Da giovane è entrato nel monastero di San Nicolò l’Arena, a Nicolosi, un rifugio per spiriti inquieti che sorge sulle pendici dell’Etna. Circondato da terre rosse e da vigneti, il cenobio dispone di una ricca biblioteca, ma è troppo vicino alla bocca del vulcano per lasciare tranquilli i suoi ospiti. Rioli, che ha preso i voti nel 1534, assiste sicuramente alla violenta eruzione avvenuta due anni dopo, una delle più rovinose a memoria d’uomo. Il paese di Nicolosi viene investito dalla lava e anche il monastero subisce gravi danni. Un medico di Piazza Armerina, tale Francesco Negro, perde la vita in quei giorni “per esser troppo curioso nella investigatione delle fiamme etnee”, come riferirà cent’anni dopo uno storico locale.

In questo scenario apocalittico un confratello mantovano da poco trasferitosi a San Nicolò l’Arena, Benedetto Fontanini, concepisce uno dei libri più controversi del secolo, il Beneficio di Cristo. È un trattato teologico carico di misticismo, dove si sostiene che la salvezza dell’anima si può ottenere solo per grazia divina. L’opera conosce una rapida diffusione in tutta Europa, diventando nel contempo la cartina di tornasole utilizzata dagli inquisitori per individuare i nuovi eretici.

Imbevuto delle tesi di Fontanini, Giorgio lascia la Sicilia e si trasferisce tra le nebbie di San Benedetto Po. Quando Paolo III convoca il concilio, si mette in viaggio alla volta di Trento: spera infatti di essere ammesso alle discussioni dei più dotti teologi, ai quali intende esporre una sua teoria basata su straordinarie rivelazioni, che egli afferma di aver ricevuto da Gesù Cristo in persona. Per prudenza si ferma a Riva del Garda dove si fa apprezzare come predicatore quaresimale. In attesa di essere ricevuto a Trento, passa le notti all’eremo della Maddalena, sul monte Rocchetta, dove a fargli compagnia c’è solo il gran respiro del lago. All’alba di ogni giorno scende in paese e predica la parola di Dio, col fervore di chi si sente in dovere di salvare dall’errore quante più anime gli sia dato di incontrare. Frattanto scrive un trattatello sulla giustificazione, che invia all’abate di Pomposa: don Luciano lo giudica positivamente e lo traduce in latino, consegnandone una copia finemente rilegata al cardinale Madruzzo. La circolazione del manoscritto procurerà ai due monaci soltanto guai.

Sfumata la possibilità di essere ascoltato dai padri conciliari, Rioli si trasferisce a Bologna, dove nel 1550 fa stampare un’epistola indirizzata “alli cittadini di Riva di Trento”. Con questo libriccino si propone di far conoscere ai fedeli “in quanto infernale pericolo sono quelli che stanno nella falsa dottrina dei protestanti”, volendo forse dimostrare di non essersi mai discostato dalla dottrina della Chiesa. Di fatto con questa mossa finisce per indispettire sia i cattolici conservatori che i luterani: questi ultimi lo attaccano duramente nei loro scritti e persino Calvino, da Ginevra, scaglia su di lui i suoi temibili strali. Ciò nonostante, a Bologna le sue idee trovano consensi nell’ambiente studentesco, mentre cresce il numero dei suoi estimatori nei monasteri benedettini.

La sua fama è legata a un testo che si suppone corposo, il cosiddetto Libro Grande. È un libro veramente misterioso, perché se ne ignora il contenuto. Il fatto è che nessun esemplare sembra essere sopravvissuto alla censura ecclesiastica e ai roghi dei domenicani: gli storici pensano che la maggior parte delle copie circolanti nel Cinquecento sia stata distrutta dagli stessi lettori, per non subire persecuzioni. Di recente è stato scoperto che tale Robert Martin, un libraio londinese vissuto nella prima metà del Seicento, ne possedeva una rara copia, come risulta dal suo catalogo di vendita. Perciò sul Libro Grande non è ancora stata detta l’ultima parola: un giorno potrebbe riemergere dal fondo di una biblioteca, facendo la felicità di uno sparuto gruppo di ricercatori.

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La vita dei cani sciolti è elettrizzante, ma irta di incognite. A differenza degli abati suoi confratelli, il monaco siciliano è appunto un cane sciolto e non gode di protezioni altolocate. Perciò, al sorgere delle prime difficoltà con l’Inquisizione, molti suoi estimatori della prima ora gli voltano le spalle. Nel settembre del 1550 Giorgio si trova a Ferrara quando viene arrestato con l’accusa di eresia: rapidamente processato, è condannato a morte dal tribunale ecclesiastico. Si rifiuta di abiurare e viene perciò consegnato al carnefice ducale, che lo strangola in carcere il 23 maggio 1551. Nei mesi successivi piovono sui suoi seguaci altri ordini d’arresto, mentre il concilio riprende i suoi lavori a Trento.

Gli abati benedettini non si ripresentano all’appello: sulle rive dell’Adige la loro spiritualità non ha incontrato grandi simpatie e forse non è il caso di insistere. Nel frattempo uno dei tre, Isidoro da Chiari, ha fatto carriera: nominato dal papa vescovo di Foligno, rimarrà in Umbria fino alla morte, avvenuta nel 1555. Le manifestazioni di ostilità nei suoi confronti sono soprattutto postume e si acuiscono sotto il pontificato di Paolo IV, quando la nuova edizione della Bibbia che il monaco bresciano ha diligentemente curato viene messa all’Indice. D’altronde Isidoro è nel mirino dei custodi dell’ortodossia già da lungo tempo: almeno da quando ha pubblicato l’Adhortatio ad concordiam, un appello alla riconciliazione tra cattolici e luterani in nome della comune fede. Invocare la pace, in tempo di guerra, è sicuro indizio di eresia.

Nonostante la sua antica dimestichezza con presunti eretici, anche l’abate Calvini è riuscito a fare una discreta carriera: è finito a vivere in Dalmazia, a Ragusa, città di cui è diventato arcivescovo. Anche sull’altra sponda dell’Adriatico, tuttavia, non sfugge ai radar del Sant’Uffizio. Lo insegue da sempre il fantasma di Giorgio Siculo, che gli inquisitori evocano ossessivamente nei loro interrogatori per tentare di incastrarlo, nella ferma convinzione che il vecchio monaco, in segreto, ne condivida ancora il pensiero. Alla fine i domenicani riescono ad accusarlo solo di reticenza nell’applicazione dei decreti tridentini, ma è motivo sufficiente per convocarlo a Roma e sottoporlo a una nuova inchiesta. Sebbene molto anziano, l’ultimo superstite della pattuglia benedettina al concilio di Trento si dispone al viaggio, in spirito di obbedienza; ma si ammala alla vigilia della partenza e muore prima che i professionisti del sospetto riescano a trascinarlo in giudizio.

La storia di Giorgio Siculo e dei tre abati accusati di eresia è più o meno questa. Nel frattempo l’autostrada ti ha portato al nord, dove vivi e lavori. Montecassino è alle tue spalle, lontanissima, ormai avvolta nell’oscurità. Sei quasi arrivato a destinazione: ecco il casello di Trento Sud, tra poco entrerai in una città illuminata a giorno. Eppure anche qui è notte fonda.

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Pubblicato da Roberto Pancheri

È nato a Cles nel 1972 e vive felicemente a Trento. Si è laureato in Lettere a Padova, dove si è specializzato in storia dell’arte. Dopo il dottorato di ricerca, che ha dedicato al pittore Giovanni Battista Lampi, ha lavorato per alcuni anni da “libero battitore” e curatore indipendente, collaborando con numerose istituzioni museali e riviste scientifiche. Si è cimentato anche con il romanzo storico e con il racconto breve. È infine approdato, per concorso, alla Soprintendenza per i beni culturali di Trento, dove si occupa di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico. La carta stampata e la divulgazione sono forme di comunicazione alle quali non intende rinunciare, mentre è cocciutamente refrattario all’uso dei social media.