Ci sono storie e luoghi che lasciano dietro di sé una scia di nostalgia talmente forte che nemmeno la più grande e ricca fantasia riesce a colmare. Eppure di questa fantasia si sono imbevuti gli scritti secolari di mistici sciiti duodecimani e di ismaeliti, di volta in volta aggiungendo qualche riga, nella speranza di aumentare la possibilità di trovare le coordinate che ci permettano di trasformare la storia e il luogo in qualche cosa di reale. Ci hanno provato anche i miniaturisti, i poeti, i bardi. Ma Kaf, il Monte Qaf, rimane lì, sospeso nel vuoto più profondo, agganciato a migliaia di righe di inchiostro nero, di piccole e intriganti miniature coloratissime in una sorta di iconografia mentale che proietta in dimensioni a noi occidentali poco consuete. Il Monte Qaf si erge da una catena montuosa immaginaria collocata a est, là dove sorgeva l’Eden, il Paradiso perduto. Anzi si potrebbe avanzare l’ipotesi che i due luoghi si identifichino, si sovrappongono. Questo però ce lo può confermare soltanto il Simurg, noto anche come Simurgh, Semuru o in persiano Senmurv, l’uccello avestico che vive sull’albero dei semi, l’Albero Tuba: «La distesa della Terra è il Suo desco, cui tutti possono accedere. A questo banchetto, l’amico e il nemico stanno uno accanto all’altro, e Dio apparecchia la tavola con tale abbondanza di beni che l’Uccello Simurgh, sul Monte Qaf, può trovarvi il suo cibo quotidiano». Ma il monte non si può raggiungere né via terra né via mare. Noi rimaniamo inevitabilmente al di qua. Decine e decine di spedizioni psichiche hanno tentato di approdare alle sue pendici ma non hanno mai avuto la grazia di guardare al di là, di scorgere le gigantesche vallate che si dilungano dalla sua cima, di assaporare la Luce, di vedere il Simurgh, il Grifone del Monte Qaf.
Sapere che c’è ci aiuta a non sprofondare nell’insensatezza, a non farsi consumare dalle nostre scienze umane, al contrario, ci faciliterà a ritrovare il cammino, o i cammini. Prima che le scoperte scientifiche moderne riducessero e rimpicciolissero il mondo, l’immensità dei tempi e degli spazi e la moltitudine dei mondi ci rivelavano saperi e immaginari che noi oggi possiamo ritrovare soltanto nei testi medioevali o in quelli dei mistici, di qualsiasi mistico che si affacci sulla porta delle montagne sacre. Qaf è la montagna cosmica, anzi psico-cosmica, un mandala direbbe Giuseppe Tucci, avvolge il mondo con il suo colore verde smeraldo e segna il limite tra il nostro mondo del divenire e il mondo del regno di Dio o degli Dèi. È un piano sopra a dove vivono i demoni, ma inferiore a dove abitano gli angeli superiori. Henry Corbin chiama questo piano, questo livello, il «mondo immaginale», così ben sviscerato nel suo testo più celebre, Corpo spirituale e Terra celeste. Dall’Iran mazdeo all’Iran sciita (Adelphi, 1986). E il color verde è sempre motivato dalla situazione intermedia tra il mondo delle cose corporali (contraddistinto dal colore nero o blu-nero) e il mondo delle Intelligenze separate (contraddistinto dal colore giallo, dall’oro delle icone).
In questo mondo il Monte Qaf è lì per indicarci il nostro bisogno di andare sempre e comunque “oltre”, il circumambulare attorno a questa impervia vetta ci apre prospettive inedite, come ha ben poetato Franco Battiato, trasformando l’immaginazione in note danzanti su righi musicali. Le decine e decine di stampe e miniature che raccontano il Monte Qaf sono di una ricchezza semantica e cromatica a dir poco indicibile, direbbe Giuliano Briganti volgendo lo sguardo al suo grande amore, la pittura fantastica e visionaria dell’Ottocento. Gli artisti hanno saputo dipingere cosa c’è al di là della montagna, i quaranta mondi, e ciascun mondo equivale a quaranta volte il nostro mondo. Ce lo ha raccontato anche il filosofo Qazi Sa id Qommi (1691) della scuola della città santa
di Qomm, “la ben custodita”.
Qaf è l’oriente, una delle ali dell’angelo Serafiele, dove sorge il sole, l’oriente delle luci, la terra spirituale. Per questo le chiese romaniche erano orientate rigorosamente verso l’est: là dove sorge la speranza.