
La poesia di Lord George Gordon Byron (1788, Londra – 1824, Grecia) si anima di intenzione e ci esorta, semplicemente, ad attraversare il tempo per comprendere appieno i sentimenti che abitano il nostro cuore. Nel ricordo di ciò che è passato piantiamo le radici di ciò che potremmo diventare, se sapremo fare tesoro di ciò che abbiamo sofferto. L’esperienza ci rende consapevoli e ci fornisce gli strumenti per andare avanti. Nei primi versi si contrappone l’esigenza del cuore di guardare al futuro con possibilità e la condizione del sentimento d’Amore che non può dimenticare, deve essere presente a se stesso per evitare cocenti delusioni. Negli ultimi versi invece ecco la verità, la malinconica condizione umana per cui anche ciò che è stato diventa nel ricordo come un sogno impalpabile. Il passare del tempo ci fa dubitare di aver vissuto veramente, perché nel passato non siamo più noi e nel futuro non ancora. Così siamo relegati in un tempo presente che sembra un’illusione, uno spazio scomodo in cui lo stare con noi stessi ci sta stretto. Il nostro cuore ha altre velocità, si spinge al limite per guardare oltre la coltre di ciò che è sconosciuto, stringendo nei pugni il ricordo di ciò che è stato e mai più tornerà.
Dicono che la Speranza sia felicità
“Felix qui potuit rerum cognoscere causas” (Virgilio)
Dicono che la Speranza sia felicità,
Ma il vero Amore deve amare il passato,
E il Ricordo risveglia i pensieri felici
Che primi sorgono e ultimi svaniscono.
E tutto ciò che il Ricordo ama di più
Un tempo fu Speranza solamente;
E quel che amò e perse la Speranza
Ormai è circonfuso nel Ricordo.
È triste! È tutto un’illusione:
Il futuro ci inganna da lontano,
Non siamo più quel che ricordiamo,
Né osiamo pensare a ciò che siamo