Un calcio alla diversità

“Il calcio è stata la nostra possibilità di inclusione”, dice commossa la capitana di una delle squadre al centro del campo, in un’appassionata uscita su quanto tutto questo abbia potuto significare per lei. Da più di dieci anni, lei e le sue compagne sono infatti unite da questa profonda passione comune. 

Arrivate da luoghi distanti, sia a livello geografico che culturale, con il mito trasposto del “sogno europeo” per poter iniziare una nuova vita; cercando un mondo migliore per sé e per i loro bambini, sognando un riscatto dopo una vita di porte chiuse. Infatti, per quanto si possa credere basandosi su vetusti pregiudizi, sono persone che arrivano in Italia e spesso vengono sfruttate e sottopagate per la condizione nella quale si trovano, ovvero di straniere. Senza la conoscenza della lingua e senza permesso di soggiorno è complesso riuscire a vedere riconosciuta una competenza, una formazione che nel proprio paese si traduceva in ben altra professione rispetto a quella che poi, loro malgrado, si ritrovano a fare. Spesso inoltre si tratta di professioni in nero, senza un contratto che possa tutelare questi poveri migranti sperduti che ormai non hanno nulla da perdere perché hanno lasciato tutto alle spalle, senza una minima solidità e sicurezza sulla quale poter iniziare a costruire un nuovo futuro. Tutto ciò dovrebbe portare a compiere un ragionamento su quanto questo Paese faccia ancora fatica a favorire l’inserimento in società di questi individui. Forse sarebbe meglio focalizzare l’attenzione su nuove misure di accoglienza e di facilitazione dell’integrazione piuttosto che su limiti e negazioni spesso giustificate solamente da una quasi atavica quanto anacronistica paura. Perché a perderci, oltre ovviamente alle persone interessate direttamente, è proprio il Paese in sé con la totalità dei suoi cittadini. Ma ancora oggi, purtroppo, molte competenze trasversali che gli immigrati potrebbero offrire, invece che essere valorizzate ed esaltate, vengono semplicemente perse perché non riconosciute. 

La conseguenza è che in determinate condizioni ci si trova spesso a scegliere tra il lecito darsi da fare e l’illegalità che, quando si è travolti da dirompenti emozioni, può sembrare la più facile, se non a volte l’unica.

Ma le protagoniste, nel film diretto da Chiara Bondì e Isabel Achàval, danno la dimostrazione di come sia possibile tenere la rotta, resistere contro le intemperie che ogni giorno possono scombussolare la vita, riuscendo ad esempio a ritrovare il proprio luogo d’origine nella bellezza di un particolare gioco di luci offerto dal tramonto, sulla strada per casa uscendo dal lavoro; oppure nella gioia per un gol segnato nell’unico giorno di riposo sacrificato, con enorme gioia, per quella partita di pallone.

Sono le ultime, coraggiosamente – e con un pizzico di incoscienza – avanzate in prima fila, a combattere con le armi e con i denti contro un mondo di odio, pregiudizi e tanta ignoranza mascherata da rabbia. I loro datori di lavoro vivono nella pretesa di poter comprare una persona nella sua totalità invece di usufruire, come dovrebbe essere, unicamente del servizio che svolge. “Possono essere molto educati ma non si metteranno mai nei nostri panni”, commenta così una delle ragazze del film, sintetizzando in maniera efficace, con un profondo velo di amarezza, questo concetto. Si tratta di un atteggiamento molto rischioso che può portare queste donne a trascurarsi, dimenticando che esistono in quanto persone, meritevoli di rispetto in quanto tali e non in quanto forza lavoro. Il valore è presente in ognuno in quanto individuo, a prescindere dalle personali capacità produttive. 

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 Il carattere comune che unisce tutte le badanti del film è la semplicità. Commuove infatti notare come i loro sogni siano commisurati alla vita che svolgono, dunque non elaborati né eccessivamente ambiziosi: visitare la madre, la speranza che la figlia possa trovare un lavoro (che le permetta di fare la spesa e di pagarsi le bollette). Niente auto di lusso oppure case da sogno quindi, solamente poter vedere il bene da troppo dimenticato negli occhi di chi vuole loro più bene. Sono semplici anche nel loro giocare a pallone, facendosi portabandiera di un calcio popolare sempre meno presente nella realtà attuale, con schemi condivisi all’interno di un soggiorno sopra di un cuscino e tattiche elaborate dentro un bar. Puliscono le case di persone abbienti le quali, con ogni probabilità, amano guardare la serie A per poi scendere nei campetti nel dopo lavoro a praticare lo stesso sport, con uno spirito però che con quello che muove i milioni, in fin dei conti, ha davvero poco a che fare. Infatti nel loro caso non vi è nessun’altra logica che non sia la voglia di stare insieme a spingerle a scendere in campo. Riescono in questo momento a liberare lo stress, la fatica, le delusioni che per tutta una settimana sono costrette a sopportare. Si crea quindi un momento fondamentale di evasione dalla loro dura vita di badanti, permettendo loro di fuggire per un momento da quella prigione che si può prefigurare tra un’imboccata e un cambio di un pannolone. Ecco quindi un sano esempio di sport come illuminante occasione di riscatto, dando dimostrazione di come sia ancora possibile stare alla larga dalla logica del profitto.

Quando infine l’arbitro, con il triplice fischio, decreta la fine dell’ultima partita e quindi del torneo, tra lacrime di gioia e di delusione, ci si accorge di quanto sia difficile trovare qualcuno che esca sconfitto da questa competizione. Il verdetto dell’arbitro si ferma sul campo, ciò che contava davvero era altro. Per quanto coloro che hanno perso siano frustrate ed amareggiate, si ha la sensazione che ciò passi rapidamente in secondo piano. Queste ordinarie donne, infatti, con la loro passione hanno dato la dimostrazione al mondo di come, tirando calci ad un pallone, si possano superare difficoltà e barriere che a prima vista erano parse insormontabili. Un modo per ricordare ad una smemorata società individualista quanto possa essere arricchente lo stare insieme.

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Pubblicato da Fabio Loperfido

Nato allo scadere del millennio, Fabio è uno studente errante che ancora non ha ben chiaro cosa potrebbe volere il mondo da uno come lui. Nel mentre prova ad offrire ciò che vede con i suoi occhi tramite una sua lettura, con la speranza che il suo punto di vista possa essere d'aiuto a qualcuno martellato dai suoi stessi interrogativi.