Un potenziale che giace nel nulla

È una grande occasione mancata, “Asteroid City”, ultimo film di Wes Anderson, presentato al 76esimo Festival del Cinema di Cannes, lo scorso maggio, e nelle sale italiane in questi giorni. Che ormai il filmmakes statunitense ci abbia abituato alla sua maestria nella composizione delle scene e nelle scelte registiche è cosa nota, l’amaro in bocca però rimane, quando uscendo dalla sala, ci si rende conto che stavolta – più che mai e per davvero, anche se qualcuno lancia questa accusa da tempo – non ci ha saputo dare null’altro che una “scimmiottatura” egregia di se stesso. Sviscerare uno stile che calza bene, del resto, è cosa lecita nell’arte; così come lo è, tuttavia, per necessaria statistica, anche sbagliare qualche colpo. Ed è così che probabilmente di “Asteroid City” ci dimenticheremo in fretta.

La vicenda, ambientata nel 1955, ruota intorno a un piccolo villaggio, pronto ad ospitare, in una sorta di camp estivo, la premiazione per un prestigioso concorso scientifico tra le giovani menti più eccelse degli USA (il tutto con un sentore che richiama “Moonrise Kingdom”). Qui, i pochi presenti, tra ragazzi, genitori e qualche luminare della scienza, si troveranno ad avere un tanto inaspettato quanto curioso incontro ravvicinato con un alieno, venendo perciò costretti dall’esercito americano alla quarantena. Una location incredibile, dal punto di vista visivo, che strizza l’occhio ai set (ed è voluta la smaccata finzione dei luoghi) del cinema western più classico e ai cartoni animati (con tanto di presenza di un piccolo Beep Beep come in “Willy il coyote”), costruendo il suo “piacere per gli occhi” sui canonici colori pastello di Anderson, sulle consuete simmetrie, su movimenti di macchina sempre puliti, sempre precisi. È tutto bellissimo, insomma, nel vero senso della parola. Come bellissima è quell’animazione – frutto di un interesse che il regista si porta avanti da “L’isola dei cani” – dell’alieno venuto ad “invadere” (o forse no?) il villaggio. Una confezione luccicante, di altissimo livello, in cui si muove un cast, sulla carta, davvero eccezionale, da Scarlett Johansson, a Margot Robbie, a Tom Hanks, a Adrien Brody, a Edward Norton, a William Dafoe, a Tilda Swinton. Eppure, è come se ci trovassimo di fronte a molto potenziale lasciato a giacere nel nulla: nessuno di questi grandi nomi spicca per talento, nessuno regala una performance degna di nota, nessuno, forse, ha abbastanza spazio per farlo. Il risultato, tolta la delizia estetica e, qua e là, qualche battuta che fa sorridere, è un film totalmente privo di anima e a tratti – purtroppo – anche noioso. Strutturato come una commedia classica in tre atti, in “Asteroid City” non succede nulla, la trama evapora, senza che tuttavia ci sia dell’altro a far da collante e contraltare: la sceneggiatura non è così sagace e brillante; la patina deliziosa di scenografie e regia non basta.

A gravità zero, sulle note dei Van Halen

Ben lontano dagli alieni amichevoli e buffi alla “Asteroid City” e parlando di spazio e astronauti, un grande classico del genere è “Mission to Mars”. Film del 2000, diretto da Brian De Palma, si afferma nella memoria pur non essendo di certo tema consueto per il regista che, ben più e ben prima della fantascienza, è con pellicole del calibro di “Scarface”, “Gli intoccabili” o “Carrie – Lo sguardo di Satana” che ha costruito il gusto dei suoi spettatori. Più leggero, più “divertissement” di altri, “Mission to Mars” vale allora come un esperimento (ben riuscito, a differenza dell’ultimo di Anderson), sempre chiaramente firmato De Palma, anche solo per la simmetria delle composizioni di scena, e forse tutto sintetizzato in quella scena del balletto a gravità zero, sulle note dei Van Halen, in uno scenario bianco e dai rimandi kubrickiani.  

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.