Il cinema? Un’indagine sull’io

Tre film all’attivo, tutti e tre presentati alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, tra cui “Monica”, nelle sale in questi giorni, storia di una donna transessuale che dopo vent’anni torna nella casa natale per accudire la madre malata, dove farà i conti col tempo e col perdono. 

Andrea Pallaoro nasce a Trento nel 1982 e vive ormai da anni negli Stati Uniti, dove si dedica alla professione di filmaker. Con lui abbiamo parlato di origini, maestri, cinema, estetica, temi ricorrenti e sogni nel cassetto.

Nasce in Trentino, ma cosa le resta, oggi, delle sue origini?

Il legame con il Trentino è per me indissolubile. Lì (risponde infatti dall’America n.d.r.) ci sono le mie radici, la mia famiglia… È un luogo in cui sono stato molto amato. Oggi vivo negli Stati Uniti, diviso tra Los Angeles e New York, e credo che tutti questi posti siano complementari dentro di me. Lavorativamente parlando, non ho mai avuto occasione di girare nella mia terra d’origine, ma ci sono alcune delle storie che sto maturando, che potrebbero effettivamente trovare spazio lì, quindi chissà.

Come nasce il suo amore per il cinema? Come decide di farne un mestiere?

Mi sono innamorato del cinema da bambino, quando hanno cominciato a portarmi in sala le prime volte. Avrò avuto 4-5 anni. Col tempo, è diventato una parte importantissima della mia vita, perché il suo essere “catarsi”, grazie alla proiezione dello spettatore nei personaggi e nelle storie, mi ha permesso di fare spesso i conti con me stesso, arrivando a conoscermi meglio. Per questo, di fatto, ho sempre avuto il desiderio di far parte della conversazione, di contribuire a mio modo al fare cinema. Dopo tre anni di liceo classico, quindi, mi sono trasferito a Craig, in Colorado, e da allora non ho più lasciato l’America: ho studiato all’Hampshire College, una scuola molto liberale, senza voti e test, nell’indirizzo cinematografico, e poi ancora al California Institute of the Arts, per la definitiva specializzazione.

Parliamo allora del suo cinema: tre film, “Medeas” nel 2013, “Hannah” nel 2017 e ora “Monica”, tre storie di donne, tre analisi psicologiche di queste protagoniste. Da dove viene questo fil rouge?

L’universo femminile mi ha sempre affascinato moltissimo, anche se non so dire quale ne sia il motivo. Forse la causa sono le tante donne della mia infanzia e adolescenza che sono state importanti per la mia crescita. Penso ad esempio a mia nonna, a mia madre, alle mie zie. Le donne che racconto, ad ogni modo, sono figure complesse, profonde, affascinanti, perché ciò che mi interessa di più del cinema è la possibilità di penetrare il mondo interiore, di esplorare gli stati psicologici dei personaggi.

Uno dei tre, “Hannah”, la vede subito alle prese con “il sogno”, con un’attrice del calibro di Charlotte Rampling. Com’è stato raggiungere questo traguardo così presto?

Tendo a pensare sempre più agli ostacoli che ai traguardi, però sì, ammetto che è stato un sogno poter lavorare con Charlotte. Era un mio desiderio fin da ragazzino: ho visto “La caduta degli dei” di Luchino Visconti e da allora ho sempre voluto fare un film con lei. In realtà poi è stato molto più semplice di quanto si possa credere: ho scritto “Hannah” per lei, le ho inviato la sceneggiatura e in pochi giorni mi ha contattato, dicendomi che accettava la parte. So per certo che se avesse rifiutato, non avrei fatto il film. Era per lei.

Ma l’estetica non è per lei meno importante, come dimostra l’attenzione alle inquadrature o la scelta di formati come il 35mm per “Hannah” e il particolarissimo 1.2:1 per “Monica”.

No, esatto. Il cinema è comunicazione per immagine e ciò significa che inquadrature, linee, colori, montaggio sono tutti fondamentali: devono essere strettamente legati al personaggio e alla percezione che egli ha di ciò che lo circonda. In “Monica” ad esempio la scelta del formato, voluto con la mia direttrice alla fotografia Katelin Arizmendi, nasceva dall’esigenza di esaltare il soggetto rispetto al paesaggio. È un formato che, quando in un’inquadratura ci sono due o più corpi, trasmette codipendenza e una sorta di senso di soffocamento. In generale, ogni mia inquadratura è pensata e studiata a fondo per mesi prima di essere girata. 

Che film vorrebbe fare ora?

Non so ancora. Ho quattro sceneggiature pronte, scritte, ma non so quale sarà la prossima a diventare un film. 

Parla però di scrittura. Tra scrivere e filmare, cosa preferisce?

Non potrei mai scegliere. Scrivere è un processo estremamente libero, intimo, di grandi possibilità ma anche di grande solitudine; al contrario girare comporta mettere dei limiti alla libertà e all’immaginazione, ma ha il valore aggiunto della collaborazione con gli altri.

Torniamo a lei spettatore: quali sono i suoi maestri e i colleghi che ammira?

I maestri sono Michelangelo Antonioni, Raier Werner Fassbinder, ma anche Béla Tarr o John Cassavetes. Tra i contemporanei ammiro molto Lucrecia Martel e Tsai Ming-Liang. Sono i due registi che più mi hanno ispirato e che continuano a farlo, perché riescono sempre a dare allo spettatore un punto di vista, che è il loro, ma che è sempre filtrato attraverso un linguaggio rigoroso e preciso. Insomma, guardando i loro film, si ha proprio la chiara percezione dello stare guardando il mondo attraverso gli occhi di qualcun altro. 

Ah, ma amo molto anche Chantal Akerman. Un film che trovo incredibilmente ispirante infatti è “Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce, 1080 Bruxelles”, 

Un augurio per il futuro?

Continuare a scavare dentro di me, per riuscire a trovare una modalità espressiva che mi rifletta. È un processo complesso, al quale talvolta sento di essere vicino, ma talvolta no.

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.