Aria d’infanzia

Lorenzo Rosetti, Ritratto di quattro ragazze in posa in un’imbarcazione – 1899, positivo su carta alla gelatina ai sali d’argento, incollato su cartoncino formato carte dé visite. Trento, AFSP, Archivio Flavio Faganello

L’esposizione Poetica fotografica, curata da Giusi Campisi e Roberta Opassi, con la collaborazione di Roberta Susini, affronta il tema della raffigurazione dell’infanzia mettendo in relazione alcune cartes dé visite della fine dell’Ottocento e dei primi due decenni del Novecento con la produzione editoriale di testi poetici moderni e contemporanei per bambine e bambini, ragazze e ragazzi. Due linguaggi, uno prettamente visivo l’altro testuale, che vivono di una stretta relazione con la realtà ma che contemporaneamente ne mettono in discussione le apparenze e l’aspetto visibile.

Se da una parte c’è la poesia che racconta il mondo in maniera originale e con parole che offrono prospettive non convenzionali, dall’altra è presente una fotografia che da una rappresentazione standardizzata dell’infanzia si sposta delicatamente e a piccoli passi verso una sua adesione più profonda ed empatica. Se da una parte la poesia parla di quello che si potrebbe sentire se ci si avvicina al senso profondo, sonoro e musicale del linguaggio, dall’altra è presente una fotografia che scatta non solo quello che si vede ma che tenta di muovere i primi passi per andare oltre la vista e far emergere il carattere delle persone e la loro individualità. Se da una parte la poesia esprime il fascino di smascherare l’invisibile che sfugge ai sensi ma i sensi attrae, di un mistero che non si svela e mantiene intatta la sua meraviglia, dall’altra la fotografia  gioca con il fascino ambiguo del visibile e con ciò che si crede o si pensa di vedere. In entrambe, la dimensione immaginativa è così potente e foriera di significati e sensazioni che ambedue sembrano dire quanto “l’infanzia è l’unico luogo che non riusciamo ad abbandonare” (Ennio Flaiano, Antologia del Campiello, 1970) ed è per questo che l’immagine rappresentativa della mostra è Ritratto di quattro ragazze in posa in un’imbarcazione, di nome Stella, che simboleggia, tra le altre cose, la personalità che cerca di condurre la vita traghettandola tra pensieri ed emozioni sensibili.

Hans Amos – Ritratto di coniugi con bebè e bambina che mostra un libro, 1917, positivo su carta alla gelatina ai sali d’argento, incollato su cartoncino formato album | Trento, AFSP, Archivio Luciano Eccher

Le cinquanta fotografie, esposte in Cappella Vantini a Trento e provenienti dall’Archivio fotografico storico provinciale, rispondono ai dettami delle cartes dé visite ottocentesche: piccoli biglietti da visita, quali immagini di sé da scambiare con persone amiche o conoscenti. Essendo il primo grande esempio di marketing commerciale della propria identità visiva, questi ritratti puntano a quella varietà di aspetti esteriori che contraddistinguono ruoli e classi sociali. Un’identità rappresentata piuttosto che espressa: lo status, il successo e l’affermazione professionale vengono celebrati e colti dall’obiettivo fotografico come raggiunti o come aspirazioni, e per questo appositamente ricreati come verosimili davanti al cavalletto del fotografo. Quell’aspetto per il quale la fotografia è tanto apprezzata, come tecnica meccanica che fa da ‘specchio’ al mondo e che garantisce un legame diretto tra il soggetto rappresentato e l’immagine risultante, nel caso delle cartes dé visite è un abile elastico di ambiguità tra realtà e gioco di ruolo. Solo il volto e lo sguardo connotano il dato di verità, mentre viceversa l’ambientazione, l’inquadratura, la posa denotano la volontà di esprimere un ruolo sociale o l’immagine funzionale che si intende evocare per affermarsi nel mondo.

Giovanni Battista Altadonna – Ritratto di due bambine sedute in poltrona, 1863-1885, positivo su carta all’albumina, incollato su cartoncino formato carte dé visite | Trento, AFSP, Archivio Luciano Eccher

Nella ritrattistica di fine Ottocento e inizio Novecento, l’immagine d’infanzia è affrontata dai vari fotografi, più o meno professionisti, presenti sul territorio trentino secondo i cliché tipici delle cartes dé visite di influsso europeo. Bambine e bambini, colti quasi sempre a figura intera, in piedi accanto a finti piedistalli o a torniti tavolini d’epoca oppure seduti in sontuose poltrone prese in prestito dai salotti borghesi, vestiti con capi raffinati ed eleganti, posano davanti a fondi scenografici che ricordano paesaggi agresti o prestigiosi giardini romantici. Le bambine tengono spesso in mano dei fiori o dei cestini di vimini e indossano vestiti creati a imitazione di quelli adulti, così come i bambini si presentano in giacca, panciotto, pantaloni e cappello di gusto borghese se non aristocratico mettendo in bella vista il bastone da passeggio, simbolo dell’uomo raffinato dell’alta società. Ma tutti questi indumenti e oggetti possono non appartenere ai modelli ed essere ‘in prestito’: conservati negli studi fotografici sono offerti per ‘mettere in scena’ un’esistenza effimera, costruita su imitazione di scenografici e pomposi ambienti aristocratici. Neanche la postura è naturale ma costruita su una visione predefinita dell’infanzia, sulla scia di schemi iconografici pittorialisti oppure di standard ritrattistici propri di quelli dedicati alle figure adulte. La dimensione spontanea e libera di quella prima età della vita è completamente annullata, per la creazione di articolate composizioni e di inquadrature standardizzate, che nessun spazio lasciano alla vitalità infantile. Questo è riscontrabile soprattutto nelle cartes dé visite che celebrano la storia personale e famigliare ritraendo i momenti chiave della vita: la nascita, la Prima Comunione, la riunione parentale per mostrare il ‘focolare’, ma anche nel caso di tutti quei ritratti che andavano a comporre l’album fotografico di famiglia. Il caso specifico di Matteo, ripreso in ben dodici fotografie nell’arco di tempo che trascorre probabilmente dal suo primo anno di vita fino ai nove, e immortalato da diversi professionisti operanti nella città di Arco – il fotografo di corte Otto Grasemann, Richard Kropsch e Carlo Mayer, Emilio Tiozzi –, denota proprio l’intenzione di fermare il trascorre del  

tempo e lasciare memoria e ricordo di una vita che evidentemente aspirava a grandi successi e mete professionali. Non per nulla in almeno due casi, Matteo è ripreso vicino a un tavolino sul quale si scorgono carte e libri a voler dimostrare il livello di istruzione acquisito o perseguito.

Enrico Unterveger – Ritratto di bambina con “La Domenica del fanciulli” 1900-1912, positivo su carta ai sali d’argento, incollato su cartoncino formato carte dé visite | Trento, AFSP, Archivio Flavio Faganello

Una serie di fotografie sono dedicate proprio alla lettura, non solo perché il XIX e XX secolo sono il tempo in cui si affaccia la scolarizzazione, seppure per le sole classi più abbienti, ma anche perché la capacità di leggere il mondo diventa un elemento simbolico della ritrattistica, anche nel caso delle cartes dé visite. La presenza di un libro allude alla condizione culturale dei soggetti e si presenta come fonte di conoscenza e saggezza, sinonimo di quella volontà di apprendere e aggiornare la propria esperienza esistenziale. D’altronde l’idea vigente nel corso dell’Ottocento, e per gran parte della prima metà del Novecento, è quella di un’infanzia ‘funzionalista’ ovvero di una visione che interpreta il tempo di queste giovani persone come momenti nei quali crescere velocemente e diventare adulti al più presto. Questa lettura si riflette anche nella produzione fotografica del periodo, che non lascia trasparire quanto le bambine e i bambini siano membri e beneficiari delle loro stesse infanzie. Le posture bloccate, e non solo per le inevitabili difficoltà tecniche che ancora la macchina fotografica pone al professionista, gli sguardi attoniti o severi, gli atteggiamenti predeterminati evocano l’incomprensione di uno scatto fotografico che non riconosce la vera natura di quest’età, ma ne rappresenta una sua interpretazione ‘adultizzata’ e compositivamente stereotipata. Il fotografo Giovanni Battista Altadonna presenta il Ritratto di due bambine sedute in poltrona come se fossero due protagoniste di un quadro realizzato nei Paesi Bassi del Cinquecento, seguendo le convenzioni figurative del passato e le istanze pittorialiste dell’epoca. Il fatto che il soggetto sia il ritratto di due giovanissime persone, non cambia la composizione che si rifà a schemi classici della pittura rinascimentale.

Gradualmente, a inizio Novecento, appaiono elementi ed oggetti preferibilmente associabili a questo periodo evolutivo della vita umana: il grande cerchio di legno che guidato da una bacchetta mostra la bravura del giocatore, il cavallino a dondolo per cimentarsi nel ruolo di fantino o di amazzone, o il cane quale animale d’affezione e compagno di avventure, così come le bocce o i dadi di legno, simboli dei giochi di sempre. Piccoli elementi visivi che diventano simboli di una voglia di esprimere con maggiore franchezza e freschezza un’età che dovrebbe essere dedita al gioco e all’esplorazione, e non al lavoro al fianco delle figure adulte.

Giuseppe Brunner – Ritratto di bambini con cerchio e cestino, 1906, positivo su carta ai sali d’argento, incollato su cartoncino formato carte dé visite | Trento, AFSP, Archivio Flavio Faganello

In taluni ritratti, i segni di un clima visuale che cambia, seguendo un movimento  culturale  che  inizia a interpretare sotto nuova veste l’infanzia, sono più evidenti: i bambini si sporgono dalla balaustra, classico corredo da studio fotografico ottocentesco, che da elemento divisorio diventa ostacolo da superare con impavida sicurezza, gli atteggiamenti si mostrano più naturali, fin sfacciati e leziosi, le posture lasciate più libere di esprimersi riflettono lo spirito e il carattere del modello. Lentamente, a piccoli tratti e segni, esce la complessa e multiforme natura dell’infanzia colta in scatti sempre più ‘sensibili’ a ritrarre l’essenza della persona, nella sua singolarità e individualità. Nelle cartes dé visite, tutto questo affiora solo lentamente e superficialmente, sarà poi la ritrattistica più ufficiale e artistica a portare avanti il discorso, ma i dati di un cambiamento si colgono anche in questo ambito e soprattutto nelle posture, più libere e sincere, o nei sorrisi che affiorano sui volti delle bambine e dei bambini mostrando una più spontanea ‘abitabilità’ degli studi fotografici.

Un nuovo mondo visivo che mostrerà i suoi frutti soprattutto nel corso della prima metà del Novecento sulla scia degli sviluppi delle varie scienze umane, per cui si arriverà a definire il XX secolo come il “secolo dell’infanzia”, proprio per il contributo disciplinare che la sociologia, la psicologia, la biologia, la pedagogia in primis, hanno sollecitato e sospinto nel porre al centro della ricerca il bambino e a individuarlo come attore protagonista del suo processo evolutivo.

Nei ritratti di inizio Novecento, l’atmosfera rimane comunque ancora immaginifica, una sorta di aurea che distanzia la realtà dalla sua vera rappresentazione facendo emergere soprattutto il simbolico a scapito del naturalistico. L’accostamento, in mostra, a queste piccole cartes dé visite di libri che accolgono e raccontano in chiave poetica il pianera infanzia, la cui ricchezza e multiformità oggi è assodata, mette in risalto come uno sguardo possa essere sia di occhi che di cuore, di vista che di esperienza, di quello che si può vedere fuori e di quello che si può sentire dentro.

Otto Grasemann – Ritratto di bambino (Matteo) in piedi con boccia, 1907-1911, positivo su carta ai sali d’argento, incollato su cartoncino formato carte dé visite | Trento, AFSP, Archivio Flavio Faganello

Una libreria ricolma di testi poetici parla di un’infanzia che è un multiverso, molto più ricca e sfaccettata di quella che propongono le fotografie otto- novecentesche, e che grazie all’uso giocoso, allusivo, musicale e metaforico della parola espande il modo di guardare al reale e a questa età mostrando tutta la possibile policromia espressiva del vivere. Autori come Alfonso Gatto, Giacomo Porta, Mario Lodi, Nico Orengo, Gianni Rodari e contemporanei come Bruno Tognolini, Chiara Carminati, Silvia Vecchini, Giusi Quarenghi, solo per citarne alcuni, immergono in un mondo fatto di suoni e raffinata cura della parola, significati nascosti e metafore inusuali. È indubbio che il battesimo poetico dei bambini avviene attraverso le filastrocche, le cantilene, le conte che nascono dalla tradizione orale, perché in questo modo ci si avvicina alla musicalità del verso, alla variazione del ritmo e del suono e al piacere della rima, ma presto i non sense di Toti Scajola o i limerik diventano spazi di sperimentazione testuale, che portano ad apprezzare componimenti poetici sempre più articolati, dai versi sciolti a quelli liberi. Una produzione lirica ricercata che permette di esercitare lo sguardo, di praticare la riflessione su se stessi e sul mondo, di parlare di tutto e in tutti i modi possibili. Questo espositore che è anche libreria mescola fotografie storiche e parola poetica per pronunciare dolcemente che forse “la giovinezza è solo questo perenne amare i sensi e non pentirsi” (Sandro Penna, Poesie, prose, diari, 2014).

Info

Poetica fotografica. L’immagine d’infanzia tra rappresentazione ed espressione. Fino al 3 dicembre. Una mostra in collaborazione tra l’Archivio fotografico storico provinciale, il Sistema bibliotecario trentino e il Comune di Trento.

Cappella Vantini di Palazzo Thun, via delle Orne, 1 Trento. Sab-dom: 10-13; 14-19; mar-ven: 15-19.

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Pubblicato da Roberta Opassi

Roberta Opassi ha iniziato a lavorare nel campo dell'educazione al patrimonio culturale in diversi musei del territorio trentino. Il suo interesse si è poi spostato al mondo delle biblioteche e nello specifico alla Letteratura per bambini e ragazzi dove ha intrecciato tecniche di educazione artistica alla promozione del libro e della lettura. Attualmente lavora presso l'Archivio fotografico storico della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento dove si dedica alla promozione e alla valorizzazione della fotografia storica.