“Oggi alle quattro si misero in piedi 400 guardie nazionali, le quali ebbero il possesso della gran guardia dai francesi in piazza, e delle porte della città. Erano tutti pulitissimamente vestiti, aveano la cocarda principesca bianco e pavonaccia, lo schiopo, ed erano accompagnati da una esquisita musica, e preceduti dalla bandiera del nostro Principe, e Vescovo. Vi fu un grandissimo concorso di tutta la città a questa sì nuova scena. Il comandante era il Guarienti, e comandanti Malfatti, Foresti, Bortolazzi, Sardagna, Giovanelli”. Così apparve agli occhi di uno studente di diciassette anni, il futuro raccoglitore di memorie patrie Antonio Mazzetti (1784-1841), la neo-istituita Guardia Nazionale di Trento alla vigilia dell’evacuazione della città da parte delle truppe francesi, il giorno 16 aprile 1801. L’indomani il diario del giovane cronista prosegue con queste parole: “Ora qui già ci troviamo sotto il comando del Capitolo, e senza milizia eccetto la guardia nobile nazionale tridentina”. Dalla succinta narrazione traspare il grande entusiasmo suscitato dall’avvenimento: per la prima volta nella sua storia la città veniva consegnata alla responsabilità dei suoi abitanti, i quali divenivano da quel momento i soli garanti dell’ordine e della sicurezza. Cinque compagnie di volontari trentini ebbero in consegna la città dall’esercito francese e prestarono servizio gratuito per la tutela dell’ordine pubblico dal 16 aprile 1801 al 6 novembre 1802.
Di questo corpo militare volontario ci è giunto un documento visivo di straordinaria importanza. Si tratta di un dipinto su tela di grandi dimensioni (misura 190×370 cm), datato 1806, che raffigura una rivista della seconda compagnia della Guardia, sotto il comando del capitano Gasparo Bortolazzi, come spiegano le solenni didascalie latine, che si aprono nel cartiglio in alto al centro con questa scritta: “SIC ORA ET VESTES ATQUE ARMA URBANA TENEBANT / QUI BORTOLATI DE LEGIONE VIRI” (liberamente tradotto: questi erano i volti, le divise e le armi cittadine degli uomini della legione Bortolazzi). Il dipinto è firmato dal pittore Domenico Zeni, nato a Bardolino nel 1762 e all’epoca residente a Trento, dov’era stato al servizio dell’ultimo principe vescovo Pietro Vigilio Thun (finirà i suoi giorni a Brescia nel 1819).
I nomi dei 126 volontari che componevano la “legione urbana”, unitamente ai 14 componenti della banda e ai 9 commissari e ufficiali, sono elencati nel registro inferiore della tela, contrassegnati da un numero che trova riscontro sulle cinture (commissari), sui cappelli (militi della banda), sulle tracolle (tamburini), sulle baionette (militi comuni) di ciascun personaggio. L’impresa impegnò il pittore in un vero e proprio tour de force giacché ben cento volti vennero “tolti dal naturale”, ossia ripresi dal vero, come ricorderà il suo biografo Gaetano Marcabruni. Questi elogiò il risultato finale definendolo “quadro di molto merito non solo per la somiglianza de Ritratti co’ loro originali, ma anche considerandolo semplicemente dal lato della composizione del vario e ben adattato atteggiamento delle figure”, aggiungendo poi che “questa pittura è la più lodata fra le pitture del nostro Zeni”.
Lo scenario dell’avvenimento è la piazza del Macello Vecchio o delle Beccherie – l’attuale largo Carducci – così denominata dal macello civico che vi aveva sede. Sulla destra si erge l’austero palazzo Bortolazzi, con il caratteristico portale con balcone dal quale si affacciano tre figure femminili. Lungo la cortina di edifici sulla sinistra si nota, tra l’altro, l’insegna di una sala da biliardo. Il dipinto costituisce una preziosa testimonianza dell’originario assetto urbanistico di quest’area della città, che subì pesanti rimaneggiamenti nel corso dell’Ottocento. Per conferire alla scena il massimo grado di solennità Zeni ha concepito una complessa cornice architettonica caricata in basso al centro dello stemma dei Bortolazzi.
Committente dell’opera fu lo stesso capitano Gasparo conte Bortolazzi (1767-1846), esponente di una famiglia trentina di recente nobiltà e titolare di una grossa manifattura di sete. Poco si sa della sua vita: nel 1804 venne eletto console e, rimasto celibe, lasciò in testamento una grossa somma per l’erezione della nuova facciata della chiesa di San Pietro. Il suo ritratto è collocato all’estremità sinistra della tela, in primo piano presso il tamburino. A distanza di quattro anni dalla conclusione del suo servizio nella milizia egli volle immortalare questa straordinaria esperienza in una tela di carattere commemorativo.
La tela, che si conserva a palazzo Geremia, pervenne alle collezioni municipali nel 1847 in seguito a donazione da parte della contessa Adelaide Bortolazzi, erede del comandante Gasparo. Presso il comando della Polizia Municipale di Trento, in via Maccani, è visibile una riproduzione ingrandita del dipinto: i vigili urbani individuano infatti nella costituzione della Guardia Nazionale l’antefatto storico della nascita della Polizia Municipale. Una vivida descrizione dell’uniforme indossata dagli ufficiali si legge nella cronaca coeva di Bernardino Gerardi di Pietrapiana, che ne sottolineò la somiglianza con quella dell’esercito francese: “Lunghi calzoni bianchi, stivali a mezza gamba, farsetto turchino con il colare cremisino, sciabola d’acciaio col pendone nero, capigliatura alla Bruto, cappello grande a tre ali, gran nastro e pennacchio per metà bianco e metà pavonazzo: cose queste che facevano credere essere la Guardia e tutti i cittadini guasti di giacobinismo”.
Del resto, anche il documento di istituzione della Guardia – un manoscritto rilegato in piena pelle dal titolo Protocollo della Gran Guardia della Milizia del Trentino – si apre con una dichiarazione dai toni rivoluzionari: “Io son Uomo, son membro d’una Famiglia, son cittadino, come Uomo son libero, come famigliare ho i vincoli a quella relazione analoghi, come cittadino devo procurare di essere utile alla società per non partecipare con ingiustizia ai beni da quella procuratimi”.
Il dipinto esprime in modo evidente il desiderio di autolegittimazione della nuova classe dirigente trentina che si era riconosciuta, almeno in parte, negli ideali napoleonici e che si era affrettata a gettare alle ortiche le parrucche e le marsine. Va però aggiunto che lo scrupolo profuso dal pittore nella caratterizzazione fisionomica degli effigiati – tutti fieri e impettiti nell’esecuzione del presentat’arm – opera sotto l’egida di una musa cordiale e ironica. Il carattere commemorativo del dipinto giustifica in un certo senso la sottile irriverenza del pittore, che evidentemente avvertì la forte improbabilità di questo esercito d’improvvisati, tanto che taluni ritratti rasentano la caricatura. Lo sguardo vagamente interrogativo del cane, inserito dal pittore nel bel mezzo della parata, toglie all’immagine ogni possibile accento retorico.
Ciò nonostante, la grande scena corale rievoca un momento di rara concordia nella compagine sociale della città, che visse in quei diciotto mesi una stagione di euforia collettiva. Alla consegna del dipinto da parte dell’artista la situazione politico-militare era già completamente mutata: al governo austriaco era infatti subentrato quello bavarese, che non concesse alcuna autonomia al governo cittadino. L’opera dovette dunque apparire ai protagonisti di quell’avventura poco più che una nostalgica rimpatriata, ormai svuotata di gran parte del suo significato politico.