I Campregher: “Da noi, si vive di solo pane”

Dove c’è un corso d’acqua c’è un mulino e dove c’è un mulino di solito c’è profumo di farina. Antonio Banderas e i suoi biscotti c’entrano poco, anche perché in questa storia siamo alla fine del Settecento a Calceranica, sugli argini del torrente Mandola. I molini, a dire la verità, significano anche altro: segherie, fucine, ma la piana prospiciente al Lago di Caldonazzo offre un coreografico colpo d’occhio, con tutto quel mais e frumento. Certo, sulle tavole dell’epoca troviamo la polenta e poi il pane, anche se quest’ultimo era cibo rinomato e costoso assai, ma non in termini assoluti. Una bina, per dire, costava negli anni Trenta del Novecento qualcosa come dieci centesimi di lira, equivalente a circa dieci centesimi di euro attuali. A fare la differenza, però, era la situazione sociale disastrata. La povertà era condizione diffusa e fatalisticamente accettata ai più.

Nel XIX secolo a Calceranica il pane se lo possono permettere in pochi. Ad esempio i nonni di Giulio Ferrari, inventore dello spumante trentino. Gli altri mangiano polenta, sfidando il rischio concreto di beccarsi la pellagra.

Fernando Campregher
Roberto Campregher

1871; apre la “pistoria” in Calceranica

E di farina e pane a Calceranica e in tutta la Valsugana si è occupata soprattutto una famiglia: i Campregher

Le prime notizie documentate parlano di una richiesta al Demanio per poter deviare il corso del Mandola. Pochi metri, per carità, giusto il necessario perché quelle acque impetuose comincino a far girare le pale in legno del Molino Campregher.

Di pane prodotto serialmente non se ne parla almeno fino al 1871, quando la sua produzione comincia ad essere economicamente conveniente. L’idea è di Benvenuto Campregher. 

È il 12 maggio quando l’Imperial Regio Capitanato Distrettuale di Borgo accoglie l’apertura di una “pistoria” in Calceranica. Le notizie a riguardo sono molto frammentarie, assente la documentazione fotografica. Di Benvenuto e di tutto il suo lavoro ci restano solo due immagini: nella prima  se ne sta beatamente seduto in mezzo ai figli e nell’altra mostra orgoglioso i suoi mustacchi bianchi sulla memoria funebre, datata 1927. 

Benvenuto era un personaggio molto noto, uno dei maggiorenti della zona, uno che aveva le mani in pasta, insomma, non solo in quella per il pane.

A raccogliere l’eredità di famiglia, i due figli, Giacomo (1914-1982) e Bruno (1925-1977). I Campregher attraversano le due guerre mondiali, quindi entrano trionfalmente negli anni del boom economico. L’azienda si sviluppa, si sposta nella adiacente sede di Via Miniera, si dota di un notevole sistema di distribuzione, dai carretti trainati dai cavalli si passa ad agili furgoncini a motore. Quello del prestinaio non è certo tra i mestieri meno faticosi, ma sono anni quelli in cui pur di evitare la povertà, diciamo, non si bada al capello. L’orario di lavoro va dall’accensione del forno a legna e di quello a carbone, alle 22 in punto, alla chiusura del mezzodì del giorno seguente. 

Negli anni Settanta, il consumo del pane si è oramai diffuso. Panini e pagnotte sono oramai su tutte le tavole abitualmente. Il lavoro per i Campregher cresce e con una grande festa viene celebrato il primo secolo di vita dell’azienda. Si aprono i primi negozi e cominciano a imbiancarsi le mani i componenti della quarta generazione, quella attuale: Adriano, figlio di Bruno, e Fernando e Roberto, figli di Giacomo. Sono questi ultimi a gestire oggi l’azienda (Adriano ha cambiato attività, aprendo lo Chalet Rosa e la pizzeria Miniera sempre a Calceranica).

Sono tre i negozi aperti, chiamati “Nonsolopane”, a Levico Terme e a Pergine, e “Il Forno” a Caldonazzo. Il bacino d’utenza ricalca, seppure con numeri diversi, un bacino che va dalla bassa Valsugana fino a Trento.

Il furgone per la consegna del pane e i panettieri. Quello con la camicia aperta è Giacomo Jr., papà di Fernando. Non manca il Sanbernardo d’ordinanza.

La leggenda del kamut

Ma tanto per gradire, entriamo un pelino nel “tecnico”. Fernando ci spiega che, un po’ in controtendenza rispetto agli usi comuni, lui predilige un impasto di tipo indiretto, ovvero si fa un preimpasto chiamato “biga” che si lascia fermentare per molte ore (diciamo da 16 a un massimo di 48 ore). “Questo permette di avere un’alveatura più fine e regolare – ci spiega Fernando –, una maggiore digeribilità, l’aumento dell’intensità di gusto e profumo e infine maggiori tempi di conservazione”.

Ci racconta anche della questione celiaci (“In realtà non è la celiachia ad essersi diffusa, ma il quantitativo di glutine ad essere aumentato nel grano. Dagli anni Cinquanta ad oggi è triplicato”) e sulla leggenda legata alla farina di kamut (“Veniva inizialmente venduto nelle fiere agricole del Montana col nome di grano del faraone Tut. La parola Kamut infatti deriva dal relativo ideogramma geroglifico che significa grano. Bob Quinn, oggi monopolista mondiale del prodotto, ne avrebbe trovati alcuni semi in un vaso canopo…”).

Altra curiosità quella legata alle tipologie di pane. C’è il Gramolà, forma ardita e originale tipica della tradizione trentina. Quindi le classicissime spaccate allo strutto (“il cui consumo venne imposto per legge negli anni Quaranta, per provare a rinvigorire la popolazione”),le ciabatte, dalla pasta molto morbida. Quindi abbiamo le forme importate: il kaiser altoatesino, al latte, e il pane tipo Altamura, lievitato con pasta madre. E poi molti altri, baguette, mantovane, ecc.. Il tutto lievitato rigorosamente con lievito naturale. A Natale e a Pasqua poi, panettoni e colombe sono richiestissimi, senza contare i dolci: zelten, torte fregolote, treccia mochena ecc..

1971. Giacomo Sr., i figli Bruno e Giacomo Jr., con parenti e amici il giorno dei festeggiamenti in occasione del centenario.

“Tempi moderni, eccoci qui!”

Nel 2003, il panificio Campregher entra nella modernità. La sede produttiva si allarga trovando una sede più idonea al Villa Center di Caldonazzo, dove troviamo Fernando in un raro momento di tranquillità del suo lavoro. L’elettricità ha accorciato e reso meno pesante il lavoro. I forni si scaldano prima e conservano meglio e più a lungo il calore. Le impastatrici automatiche fanno l’egregio lavoro di venti braccia in tempi irrisori. Ciononostante, i nostri “prestinai” montano alle 24 e dopo una notte “bianca” passata a sfornare, staccano alle 7.30 del mattino.

Inevitabile, al giorno d’oggi, quando si scrive di un’attività economica, il confronto con la congiuntura sfavorevole. Con la crisi, insomma. “Il consumo è notevolmente calato negli ultimi anni, dice Fernando, un po’ per colpa di una certa propaganda legate alle diete e un po’ perché molti hanno preso l’abitudine di farsi il pane in casa”. Un po’ anche per motivazioni di ordine economico, aggiungiamo noi. Non si vive di solo pane. Ma quanto è buono, però, quello che fanno i Campregher…

Giacomo Campregher in compagnia dei tre nipoti che erediteranno poi l’azienda. In primo piano, il Sanbernardo
Il collezionista di memorie funebri
Tra le curiosità che hanno accompagnato la stesura di questo articolo, quella di scoprire che Giacomo Campregher Sr. era un collezionista di di memorie funebri. Ne abbiamo trovate svariate centinaia, tutte incollate e ordinate in bella posta in un elegante album di fotografie. Vi trovano ospitalità le dipartite di tanti compaesani, gente semplice e sconosciuta, ma anche personaggi famosi, come l’irredentista Cesare Battisti.
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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.