Il considerevolissimo impatto ambientale delle mascherine

Quante mascherine abbiamo contato oggi per terra? In una passeggiata di 10 minuti sopra casa, nei campi, ne ho incrociate almeno tre. Di certo lungo una strada più frequentata sarebbero state molte di più. Ormai ci siamo abituati a vederle praticamente ovunque, su vie, strade, marciapiedi; questi rettangoli azzurri si sono aggiunti a un paesaggio già puntellato di mozziconi e gomme da masticare. Al di là del degrado a livello visivo, questa ennesima conseguenza del coronavirus, sta diventando un problema che rischia di diventare esponenziale, di cui purtroppo, si parla ancora troppo poco perché chiaramente secondario all’emergenza sanitaria. Inizialmente, nella prima fase di diffusione del virus nessuno, comprensibilmente, si preoccupava troppo del loro impatto sull’ambiente, anche perché non si poteva certo immaginare che la pandemia si sarebbe trascinata per più di due anni. Adesso però ci ritroviamo con un’enorme quantità di questi rifiuti da smaltire. Secondo il National Geographic, ogni minuto vengono utilizzati 3 milioni di mascherine. E ogni giorno ne vengono buttate 3,4 miliardi, di cui 1,8 solamente in Asia. La percentuale di mascherine nei rifiuti è aumentata più di 80 volte in questi ultimi due anni ed è raddoppiata anche quella di guanti e salviette.

Le mascherine andrebbero buttate nel rifiuto residuo, ovvero il secco non riciclabile, in un sacchetto ben chiuso. La loro destinazione finale dovrebbe essere l’inceneritore, ma non sempre ci arrivano, finendo per disperdersi nell’ambiente e inquinandolo. Se apparentemente sembrano infatti banali pezzetti di stoffa, in realtà contengono fibre di polipropilene e poliestere. È chiaro quindi che quando questo tessuto finisce sul terreno o in acqua impieghi parecchio tempo a decomporsi. Gli studiosi stimano 400-450 anni, mentre ne occorrono 100-200 per i guanti in lattice. Decomponendosi, questi rifiuti finiscono per rilasciare particelle di micro plastiche, che finiscono, esattamente come accade per gli altri rifiuti plastici, per essere ingerite dagli animali che le scambiano per cibo. Gli uccelli le usano per costruire i loro nidi, sono un’immagine emblematica di questo degrado. Per questo, è bene tagliare sempre i lacci prima di buttarle. Se durante il lockdown, dalle nostre finestre osservavamo curiosi e rassicurati gli animali riprendersi i propri spazi, e rinnovavamo il nostro ottimismo confidando finalmente in una svolta in chiave verde grazie alla ritrovata sensibilità ambientale, ora purtroppo constatiamo quotidianamente che la diffusione del Covid 19 non ha fatto altro che aggiungere ulteriori rifiuti ad un ambiente già al collasso, pronti ad esplodere come una bomba ad orologeria. Che fare quindi? Là dove possibile, possiamo preferire le mascherine di stoffa riutilizzabili, (quando non ci viene richiesto specificamente l’uso di dispositivi monouso), in commercio ve ne sono di molto valide, facili da igienizzare. 

Cerchiamo poi di smaltire correttamente quelle usa e getta nel residuo, come si diceva sopra, e di prestare attenzione, quando le togliamo, a riporle in tasche, taschini degli indumenti o anche semplicemente quando le infiliamo al braccio, perché talvolta, proprio così facendo capita di perderle senza neppure accorgersi. Se non stiamo attenti anche a questo, tutti presi dalla nostra paura di ammalarci, ci ritroveremo in un mondo ancora più malato di quanto già non sia.

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Pubblicato da Silvia Tarter

Bibliofila, montanara, amante della natura, sono nata tra le dolci colline avisiane, in un mondo profumato di vino rosso. La vita mi ha infine portata a Milano, dove ogni giorno riverso la mia passione di letterata senza speranza ai ragazzi di una scuola professionale, costretti a sopportare i miei voli pindarici sulla poesia e le mie messe in scena storiche dei personaggi del Risorgimento e quant'altro. Appena posso però, mi perdo in lunghissimi girovagare in bicicletta tra le abbazie e i campi silenziosi del Parco Agricolo Sud, o mi rifugio sulle mie montagne per qualche bella salita in vetta. Perché la vista più bella, come diceva Walter Bonatti, arriva dopo la salita più difficile.