Lavorare meno? Io dico che è giusto

È certamente impossibile affermare che lavorare non faccia bene. Avere un posto nella comunità e portare sulle proprie sulle spalle una parte di responsabilità collettiva sono prerogative fondamentali per il benessere. Anche per questo è preoccupante il proliferare di proposte di stili di vita, soprattutto per i più giovani, che sottendono  una visione del mondo per la quale il segreto della felicità è il non-fare, cioè il poter vivere di rendita senza faticare, godendosi viaggi, lusso, beni materiali. Alcuni guru promuovono questo stile, convinti che esso coincida con un “fregare il sistema”, non capendo che buona parte della nostra stabilità emotiva è data dal riconoscimento del ruolo sociale nell’interazione con i propri simili. All’opposto di queste visioni, però, sopravvive un pensiero forse altrettanto pericoloso, frutto di un’estremizzazione del capitalismo o forse di un’ansia da società povera, preoccupata ancora per la sopravvivenza. Questa mentalità, che mette al centro dell’esistenza il lavoro, crea uno stato di ansia costante, poiché appena si inizia a non produrre la vita sembra non avere un senso. Si parla di workaholism per descrivere il fenomeno di dipendenza dal lavoro, ma il termine è usato per i casi ossessivi, ossia persone che non riescono a staccare mai.

Quello che intendo io, invece, quando parlo di pensiero pericoloso, è la concezione comune per cui si danno per scontate le otto ore al giorno di lavoro per praticamente tutto l’anno. Il mondo è cambiato su più livelli, dall’enorme produttività alimentare fino alla crescita dei bisogni di interazione all’interno delle comunità e tra di esse. Come si può proporre un modello ancora così rigido e limitante?

Sarebbe bello capire che non è sostenibile stare sempre al limite, in un sistema che permette di sopravvivere decentemente solo lavorando al limite delle proprie forze e del proprio tempo. È così utopico immaginare un mondo del lavoro per il quale ciascuno offre le sue competenze per cinque ore al giorno e ha poi due mesi liberi ogni anno per vivere altre esperienze (studio, ricerca, ozio, sostegno a comunità meno fortunate e floride…) , o è solo un problema di mentalità e di organizzazione?

Chiaro, un professionista appassionato potrebbe desiderare di lavorare più tempo, perché sente le proprie qualità sprecate nel momento in cui non le impiega. La scelta rimanga ad ognuno, purché sia una scelta. Il problema, infatti, riguarda ovviamente i lavori più alienanti, per i quali, non si sa come, gli orari e le paghe sembrano studiate apposta per permettere, se si lavora tutto l’anno, una mera sopravvivenza, e a volte neanche quella, se pensiamo agli oltre duecento mila operai agricoli che sono sfruttati, cioè pagati meno di 5 euro l’ora, in Italia ogni anno. Che ne è della nostra vocazione, peculiarmente umana, all’avventura, all’esplorazione, all’osservazione silenziosa, al tempo lasciato all’inquietudine e ai tentativi fallimentari? Nulla, se non per i pochi che la seguono sfidando gli ingranaggi del sistema e il pesante stigma della società. Ci vorrà forse ancora molto tempo perché si possa normalizzare un orario di lavoro diverso, organizzato in base al benessere di tutti i membri della comunità e non solo dei pochi che si arricchiscono avidamente. Intanto,  per chi ha poche pretese e può permetterselo, si può iniziare comunque a lavorare di meno.

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Pubblicato da Alessandro Zanoner

Nato a Trento nel 1993, insegnante di italiano, latino e storia nelle scuole superiori. Suonatore di strada con umili tentativi da cantautore e scrittore. Mi piacciono la montagne e il Mar Tirreno; viaggio con una buona frequenza, soprattutto in centro Italia. Un pomeriggio a Roma una volta all'anno, minimo. Pavese, Moravia ed Hermann Hesse i miei autori preferiti in narrativa. Per la musica De Gregori, Vinicio Capossela, Lucio Battisti e Giovanni Lindo Ferretti.