Era tornato alla casa della sua infanzia controvoglia, si era inerpicato sulla strada che tagliava dal bosco, arrivando al piccolo paese senza prestare attenzione, tra una telefonata di lavoro e la fretta. Era una delle tante pratiche da sbrigare da quando aveva scelto di liberarsene.
L’unica cosa rimasta all’interno era la polvere che si era posata su tutte le assenze, i vuoti. Lo stato era accettabile, l’odore pungente lo aveva costretto ad aprire la grande portafinestra che dava sul giardinetto. Un groviglio di erbacce e qualche pianta di rose che aveva resistito testardamente all’incuria, un vecchio gelso a cui era ancora attaccata, ad un solo capo della corda mangiata dal tempo, l’altalena che aveva costruito suo padre per lui e che non aveva mai rimosso, sperando avrebbe accolto dei nipoti che non erano mai arrivati. Lo infastidivano i ricordi di un’infanzia felice, quell’altalena, il ricordo di una vita semplice.
Aveva barattato ormai da anni l’idea di tornarci con una teoria di comodità fatta di balconi tutti uguali, di uguali appartamenti ordinati dove le persone cercavano in ogni modo di sentirsi dei pari. Aveva lavorato per anni seduto ad una scrivania dove, da un telefono e da un computer, aveva l’illusione di potersi differenziare, conformandosi ad un’idea di realizzazione personale che la sera gli presentava il conto in una casa vuota e asettica, senza che lui si preoccupasse della cifra.
Aveva affidato la pulizia della casa e del giardino ad una ditta per non doverci tornare, restava solo l’appuntamento per consegnare le chiavi alla nuova proprietaria.
Ed era stato proprio il giorno in cui l’aveva incontrata che qualcosa dentro gli si era incrinato, appena sotto le costole. Era arrivata su una vecchia Fiat Panda bianca, una donna, forse una coetanea, dai capelli rossicci e la pelle lunare sotto una miriade di efelidi disordinate. Aveva agitato il braccio esile in un gesto di saluto e si era aperta in un sorriso di vibrante eccitazione. Si era fermata davanti al giardino: rompendo un rametto di menta selvatica, strofinadosi qualche foglia tra le dita per respirarne il profumo.
Lo aveva colto come una carezza dal passato un odore: più di tutto, quell’odore aveva improvvisamente sentito essere casa. Quel miscuglio di menta piperita e rosa di cui aveva perso traccia durante la sua vita. Inebetito e disorientato, guardando quella figura seducente che avrebbe dato nuovo respiro all’abitazione, facendo a pezzi le sue sicurezze, i programmi di una vita che aveva allontanato così metodicamente da un tempo che credeva insulso, aveva capito di aver perso qualcosa insieme ai ricordi e alla casa.
Riuscì a consegnare le chiavi con poche parole, fingendosi deciso ad un colpo di spugna davanti all’incredulità di quella nuova proprietaria già innamorata di quel nido.
“Senta, questa resterà sempre un po’ anche casa sua. Potrebbe prendere una pianta ogni tanto e portarmela, gli troverei un posto. Non tutto attecchirà ma potremmo guardare quello che resisterà, bere un caffè e riempire il giardino di chiacchiere”, lo congedò lei amichevolmente.
Le sembrò così familiare e sola, proprio come lui. Eppure sembrava cogliere dalla vita un senso a lui impenetrabile. Non disse nulla, salutó e se ne andò pieno di domande, crepe e crolli strutturali invisibili.
Ogni tanto, ancora oggi, passa e guarda quel giardino, le piante curate, la vecchia altalena rimessa a nuovo e la figura sfuocata di una donna che si dondola. Continua a domandarsi se abbia ancora senso vivere dietro alla porta blindata di un’abitazione in rovina, quando là, in quella casa, c’è quel giardino, quell’odore, quella donna.