Il tempo dei desideri minori

Alcuni processi economici e sociali largamente prevedibili nei loro effetti sembrano rimossi dall’agenda collettiva del Paese, o comunque sottovalutati. Benché il loro impatto sarà dirompente per la tenuta del sistema, l’insipienza di fronte ai cupi presagi si traduce in una colpevole irresolutezza. La società italiana sembra affetta da un sonnambulismo diffuso, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti. 

Nel 2050, fra meno di trent’anni, l’Italia avrà perso complessivamente 4,5 milioni di residenti (come se le due più grandi città italiane, Roma e Milano insieme, scomparissero). Questo dato sarà il risultato composto di una diminuzione di 9,1 milioni di persone con meno di 65 anni (e -3,7 milioni con meno di 35 anni) e di un aumento di 4,6 milioni di persone con 65 anni e oltre (e +1,6 milioni con 85 anni e oltre). 

Attualmente le donne in età feconda (convenzionalmente, la popolazione femminile di 15-49 anni di età) sono 11,6 milioni, nel 2050 diminuiranno di più di 2 milioni di unità, generando un insormontabile vincolo oggettivo per ogni tentativo di invertire nel breve termine il declino della natalità. 

Si stimano quasi 8 milioni di persone in età attiva in meno nel 2050: una scarsità di lavoratori che avrà inevitabili impatti sulla struttura dei costi del sistema produttivo e sulla capacità di generare valore del settore industriale e terziario. 

Anche la tenuta del sistema di welfare desta preoccupazioni: nel 2050 la spesa sanitaria pubblica sarebbe pari a 177 miliardi di euro, a fronte dei 131 miliardi di oggi.

Clima impazzito, immigrazione, debito pubblico, ambiente e acqua: tra gli italiani trovano sempre più terreno fertile fughe millenaristiche, paure amplificate

Dinanzi ai cupi presagi, il dibattito pubblico ristagna, e la bonaccia di qualche indicatore congiunturale non è in grado di gonfiare le vele per prendere il largo. Il sonnambulismo come cifra delle reazioni collettive dinanzi ai presagi non è solo attribuibile alle classi dirigenti, ma è un fenomeno diffuso nella “maggioranza silenziosa” degli italiani: 

– resi più fragili dal disarmo identitario e politico, al punto che il 56,0% (il 61,4% tra i giovani) è convinto di contare poco nella società; 

– feriti da un profondo senso di impotenza, se il 60,8% (il 65,3% tra i giovani) prova una grande insicurezza a causa dei tanti, diversi, inattesi rischi;

– delusi dal ciclo storico della globalizzazione, che per il 69,3% avrebbe portato all’Italia più danni che benefici;

– e rassegnati a un destino nazionale in ridimensionamento, se l’80,1% è convinto che dalle passate emergenze ne è uscita una Italia in declino (e il dato sale all’84,1% tra i giovani).

Le successive emergenze, amplificando il senso di vulnerabilità individuale hanno attivato un ripensamento diffuso del senso della vita e delle cose importanti a cui dedicare le proprie energie

Il mercato dell’emotività 

Nell’atmosfera emotiva in cui la società italiana si è immersa, vincono le credenze fideistiche: ogni verità ragionevole può d’improvviso essere ribaltata, sbullonata dal piedistallo della indubitabilità per effetto di una nuova onda emotiva. 

Agli sforzi raziocinanti di comprensione dei fenomeni e di confronto su ipotesi alternative per favorire la ricerca condivisa di soluzioni praticabili, si sostituisce la proiezione nel prisma dell’eccesso emotivo, che sollecita reazioni paradossali. Così trovano terreno fertile fughe millenaristiche, paure amplificate, l’improbabile e il verosimile, gli spasmi emotivi:

– l’84,0% degli italiani teme il clima impazzito, sempre più incontrollabile e ostile, causa della moltiplicazione delle catastrofi naturali, ogni anno più frequenti; 

– il 73,4% ha paura che i problemi strutturali irrisolti del nostro Paese provocheranno nei prossimi anni una crisi economica e sociale molto profonda;

– per il 73,0% gli sconvolgimenti globali sottoporranno l’Italia alla pressione di flussi migratori sempre più intensi e non saremo in grado di gestire l’arrivo di milioni di persone in fuga dalle guerre e per effetto del cambiamento climatico; 

– per il 70,6% i rischi ambientali, quelli demografici e quelli ora connessi alla guerra provocheranno un crollo della società, favorendo la povertà diffusa e la violenza;

– il 68,2% teme che in futuro patiremo la siccità per l’esaurimento delle risorse di acqua;

– il 53,1% ha paura che il colossale debito pubblico, in cammino verso la cifra record di 3.000 miliardi di euro, provocherà il collasso finanziario dello Stato italiano;

– il 43,3% che resteremo senza energia sufficiente per tutti i bisogni.

Il ritorno della guerra spettacolarizzata dai social media ha alimentato una paura ulteriore: la metà degli italiani ora teme che l’Italia non sarebbe in grado di difendersi militarmente nel caso di un attacco da parte di un Paese nemico. 

Sono scenari ipotizzati che paralizzano invece di mobilitare e generano l’inerzia dei sonnambuli dinanzi alla molteplicità delle sfide che la società contemporanea deve affrontare. Tutto è emergenza: quindi, nulla lo è veramente

Il tempo dei desideri minori

È il tempo dei desideri minori: non più uno stile di vita all’insegna della corsa irrefrenabile verso maggiori consumi come sentiero prediletto per conquistarsi l’agiatezza, ma una più pacata ricerca nel quotidiano di piaceri consolatori per garantirsi uno spicchio di benessere – magari temporaneo e reversibile – in un mondo ostile. 

Il consumo progressivo non è più la forza vitale che trascina gli italiani e li spinge a lavorare di più per generare più reddito da spendere. Insomma, non agiscono più gli “eroici furori” della passata epopea, perché il cambiamento del rapporto con il proprio tempo e la ridefinizione della gerarchia dei valori fanno sì che l’energia individuale, che in passato si traduceva in una spinta collettiva, ora si condensa in una nuova soggettività dei desideri a bassa intensità, che finisce per smorzare il ciclo.

Il 74,8% dei lavoratori oggi dichiara esplicitamente di non avere voglia di lavorare di più per poter consumare di più, e non ha intenzione di farsi guidare come in passato dal consumismo. Il lavoro sembra aver perso il suo significato più profondo, come riferimento identitario, perno centrale della vita, misura del successo personale e dell’affermazione sociale, oltre che mezzo di gratificazione economica. Per l’87,3% degli occupati la scelta di fare del lavoro il centro della propria vita sarebbe un errore.

Si tratta di una forma inedita e contemporanea del tradizionale desiderio di autonomia individuale, che ora si incammina sui sentieri del benessere minuto, soggettivamente inteso, nella persuasione che questa sia la modalità migliore per accedere a una più alta qualità della vita. Non è il rifiuto del lavoro in sé, ma un declassamento del lavoro nella gerarchia dei valori personali. 

Non sorprende, quindi, che il 62,1% degli italiani avverta il desiderio quotidiano di momenti da dedicare a sé stessi per combattere l’ansia e lo stress, o che un plebiscitario 94,7% consideri centrale la felicità delle piccole cose di ogni giorno, come appunto il tempo libero, gli hobby, le passioni personali. Rispetto al passato, l’81,0% degli italiani dedica molta più attenzione alla gestione dello stress e alla cura delle relazioni, perni del benessere psicofisico personale. 

Perché questa rinnovata gerarchia di valori emerge proprio adesso? Non si tratta di estemporanee mode o attitudini generazionali. Di certo, le successive emergenze, amplificando il senso di vulnerabilità individuale, hanno attivato un ripensamento diffuso del senso della vita e delle cose importanti a cui dedicare le proprie energie.

Crescita e occupazione

Il segno negativo davanti alla variazione del Prodotto interno lordo nel secondo trimestre dell’anno (-0,4%) e poi la stagnazione dell’economia nel terzo trimestre (0,0%) certificano una nuova fase di incertezza, che peraltro ancora non incorpora l’ennesimo capitolo del conflitto in Medio Oriente. Tra il primo e il secondo trimestre di quest’anno si sono ridotti dell’1,7% gli investimenti fissi lordi (in particolare nelle costruzioni: -3,3%) e anche le esportazioni (-0,6%).

Molte delle attese di ripresa e rafforzamento del sistema produttivo italiano si sono riversate, in questi anni, sulle potenzialità del Pnrr, che secondo le stime raggiungerà alla fine del 2023 una percentuale di completamento effettivo pari al 50%, contro una previsione del 74% della spesa.

Siamo passati rapidamente dagli allarmi sugli elevati tassi di disoccupazione al record di occupati, mentre il sistema produttivo lamenta sempre più frequentemente la carenza di manodopera e di figure professionali. La fase espansiva dell’occupazione, avviata già nel 2021, si è consolidata nel primo semestre di quest’anno. Tra il 2021 e il 2022 gli occupati sono aumentati del 2,4%, mentre tra i primi sei mesi del 2022 e del 2023 la crescita è stata del 2,0%. Il valore medio, in termini assoluti, del primo semestre raggiunge i 23.449.000 occupati, il dato più elevato di sempre.

Il generale miglioramento del mercato del lavoro trova conferma anche nella riduzione degli inattivi (-3,6% tra il 2021 e il 2022), che si riflette in un aumento delle forze di lavoro. Tra queste ultime si registra un significativo ridimensionamento delle persone in cerca di occupazione, sotto la soglia dei 2 milioni. 

Tuttavia, il contesto economico generale sta nuovamente scontando la presenza di vari fattori di incertezza, a partire dalla persistenza dell’alta inflazione e di una situazione politica internazionale tutt’altro che positiva. Rispetto ai primi tre mesi di quest’anno, si riducono le ore lavorate in tutti i settori produttivi: -3,0% nell’agricoltura, -1,1% nell’industria, -1,9% nelle costruzioni, -0,5% se si considera l’intera economia. Solo per i servizi, che rappresentano oltre il 70% del totale delle ore lavorate, si osserva un aumento del 2,3% rispetto al secondo trimestre dello scorso anno. Se ci si riferisce al dato del primo trimestre di quest’anno sembrerebbe, invece, esaurirsi la spinta a crescere delle ore lavorate nel settore terziario.

Nel 2022 l’Italia è comunque all’ultimo posto nell’Unione europea per tasso di attività e tasso di occupazione. 

Il patto faustiano tra le città e il turismo 

Tra near-shoring, back-shoring e de-globalizzazione, le aree economiche più attive del Paese hanno mantenuto un forte presidio dei mercati esteri, tanto da ottenere risultati mai visti prima nei livelli delle esportazioni. Nei primi otto mesi di quest’anno le esportazioni italiane hanno raggiunto un valore già superiore ai 400 miliardi di euro (l’incremento rispetto allo stesso periodo del 2022 è del 2,3%), con una prospettiva, a chiusura d’anno, che potrebbe superare il livello del 2022 (615 miliardi di euro). 

Emerge il tendenziale orientamento delle esportazioni italiane verso Paesi al di fuori dei confini europei. 

Non si è ridimensionato il ruolo di protagonismo dei territori e delle città nell’economia dei flussi. Tuttavia, nei dieci grandi comuni italiani la riduzione della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) interessa ben 6 realtà: tra il 2018 e il 2021, Napoli e Palermo al Sud e Venezia e Genova al Nord subiscono un ridimensionamento dei residenti che supera il 7%; nello stesso periodo, Milano cresce del 7,7%, Roma dell’8,0%, Firenze dell’1,6% e Bologna del 4,6%. Dal lato del lavoro, solo Milano e Bari registrano un incremento della base occupazionale (rispettivamente, +1,7% e +2,9%), mentre tutte le altre città vedono ridursi la propria base occupazionale in grado di produrre reddito (tab. 26).

Il patto faustiano tra le città e il turismo (e i suoi ritorni in termini economici) ha assunto ormai un profilo allarmante: nel 2022 gli esercizi alberghieri ed extra-alberghieri hanno registrato 25,8 milioni di arrivi, di cui 9,5 milioni da parte di viaggiatori nazionali e 16,3 milioni da parte di viaggiatori esteri. Roma ne ha accolti oltre 7 milioni, Milano e Venezia più di 4 milioni ciascuna. Il totale dei pernottamenti che si riferiscono ai dieci comuni ha raggiunto, sempre nel 2022, i 72 milioni, in progressivo avvicinamento agli 82 milioni registrati nel 2019, prima della pandemia. In termini di pressione sul perimetro delle dieci città, è come se ci si confrontasse, nel caso degli arrivi, con una popolazione insistente pari a tre volte la popolazione residente e, nel caso delle presenze, con una popolazione insistente pari a otto volte quella residente.

Città porose, dunque: piene di gatti e cani domestici (anche di fauna selvatica, talvolta), attraversate quotidianamente da flussi intensi di pendolari e turisti; città dai confini mobili, permeabili, porosi appunto, ma senza riuscire a “contenere” al meglio tali flussi, vale a dire senza esprimere reali processi di innovazione urbanistica. Con il rischio di diventare frequentemente teatro di fenomeni di inselvatichimento e degrado.

rivendicazioni dei diritti civili: L’onda lunga

La tutela delle diversità, dei singoli individui così come delle nuove forme di famiglie, è da anni al centro del dibattito pubblico, come effetto di una segmentazione del corpo sociale e una moltiplicazione delle identità che, al di là della loro effettiva consistenza numerica, spesso minoritaria, pongono serie questioni di legittimazione sociale e di riconoscimento di nuovi diritti civili. 

Le famiglie in Italia sono complessivamente 25,3 milioni. Quelle tradizionali, composte da una coppia, con o senza figli, sono il 52,4% del totale. Pur essendo in calo nel tempo (erano il 60,0% nel 2009), rappresentano ancora la forma principale di famiglia. Di queste, il 32,2% (8,1 milioni) è formato da una coppia con figli (nel 2009 la percentuale era del 39,0%) (tav. 1).

Nel frattempo, tutte le altre tipologie non convenzionali stanno aumentando, e non sembra essere lontano il momento in cui i nuovi format familiari supereranno quelli tradizionali:

– il 33,1% delle famiglie è composto da persone che vivono da sole, e nel 20,9% dei casi (5,3 milioni) si tratta di single, ovvero di persone sole non vedove, cioè persone che vivono da sole per scelta o comunque senza un partner;

– il 10,7% delle famiglie (2,7 milioni) è di tipo monogenitoriale, in quanto è composta da un genitore solo con figli (nel 2009 la quota era dell’8,7%). Si tratta generalmente di nuclei formati a seguito di separazioni o divorzi, e nella grande maggioranza dei casi il genitore che vive con i figli è la madre.

Il numero dei matrimoni si riduce (ne erano stati celebrati 246.613 nel 2008, solo 180.416 nel 2021) e oggi esistono 1,6 milioni di famiglie (l’11,4% del totale) costituite da coppie non coniugate. Dal 2018 al 2021 state celebrate 8.792 unioni civili (all’inizio del 2022 in Italia risultavano 17.453 cittadini residenti uniti civilmente). I cittadini stranieri oggi sono presenti in 2,6 milioni di nuclei familiari (il 9,8% del totale), e 1,8 milioni di famiglie (il 7,0% del totale) sono composte esclusivamente da cittadini stranieri (tab. 27). 

Oggi sembra giunta a maturazione una nuova stagione di rivendicazioni, come dimostrano le opinioni espresse dagli italiani in merito ad alcune questioni dirimenti che faticano a trovare un riconoscimento ufficiale, per via legislativa: il 74,0% degli italiani si dice favorevole all’eutanasia, con percentuali trasversali al corpo sociale, che arrivano all’82,8% tra i giovani e al 79,2% tra i laureati; il 70,3% degli italiani (quota che sale al 77,1% tra le donne e al 75,1% tra i giovani) approva l’adozione di figli da parte dei single;  il 65,6% si schiera a favore del matrimonio egualitario tra persone dello stesso sesso, con percentuali che arrivano al 79,2% tra i giovani e raggiungono un significativo 45,4% di favorevoli anche tra gli anziani;  il 54,3% della popolazione si esprime per l’adozione dei figli da parte di persone dello stesso sesso, con percentuali che vanno da un massimo pari al 65,5% tra i giovani a un minimo del 41,4% tra gli anziani.

In merito al riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori stranieri, il 72,5% degli italiani si dice favorevole alla introduzione dello ius soli, ovvero la cittadinanza per i minori nati in Italia da genitori stranieri regolarmente presenti, e il 76,8% si esprime a favore dello ius culturae, ovvero della concessione della cittadinanza agli stranieri nati in Italia o arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro Paese.

La distanza esistenziale dei giovani dalle generazioni che li hanno preceduti sembra abissale. L’ascensore sociale che garantiva un maggiore benessere nel passaggio da una generazione all’altra è bloccato

l’incomunicabilità generazionale 

La distanza esistenziale dei giovani di oggi dalle generazioni che li hanno preceduti sembra abissale. Si è bloccato l’ascensore sociale che da sempre garantiva un maggiore benessere nel passaggio da una generazione all’altra; hanno visto infrangersi il mito del progresso inteso come crescita inarrestabile dell’economia e dei consumi, convinzione sostituita adesso dalla consapevolezza che occorre adottare stili di vita più rispettosi dell’ambiente; e il loro posizionamento sociale sembra piuttosto dettato dal rapporto, più o meno stretto e funzionale, con i dispositivi e le piattaforme digitali.

Oggi nel nostro Paese i 18-34enni sono poco più di 10 milioni, pari al 17,5% della popolazione; nel 2003 superavano i 13 milioni, pari al 23,0% del totale: in vent’anni abbiamo perso quasi 3 milioni di giovani. E le previsioni per il futuro sono fortemente negative: nel 2050 i 18-34enni saranno solo poco più di 8 milioni, appena il 15,2% della popolazione totale.

I giovani sono pochi, esprimono un leggero peso demografico, quindi inesorabilmente contano poco

Del resto, la mappa dei poteri pubblici locali e centrali lo evidenzia con chiarezza: 

– solo l’11,1% dei 7.786 sindaci attualmente in carica (860 in tutto) ha al massimo 40 anni. Di questi, solo 72 sono under 30: l’età media dei primi cittadini in Italia è infatti di 54 anni; nelle aree metropolitane maggiori, poi, solo il sindaco di Reggio Calabria ha 40 anni appena compiuti; tra i presidenti di Provincia, per i quali l’età media è di 50 anni, solo 10 (il 12,8% del totale) hanno tra i 30 e i 40 anni; nessun presidente di Regione può essere definito giovane: l’età media di chi riveste questa carica è di 59 anni;

– la situazione non migliora se si considerano i rappresentanti in Parlamento, dove siedono 57 deputati con meno di 40 anni (il 14,3% del totale) e l’età media è di 51 anni. Gli under 40 sono del tutto assenti al Senato, dove l’età minima per essere candidati è appunto di 40 anni;

– anche all’interno della compagine del Governo la persona più giovane è il Presidente del Consiglio (46 anni) e l’età media dei ministri è di 60 anni. 

In effetti, la grande maggioranza degli italiani riconosce che i giovani, in questo momento, sono la generazione più penalizzata di tutte: lo pensa il 57,3% del totale, mentre il 30,8% vede danneggiato soprattutto chi oggi è in età lavorativa e l’11,9% pensa invece che siano lasciati indietro soprattutto gli anziani.

anziani di domani: tra nuove solitudini e antichi patrimoni

Gli anziani rappresentano una quota sempre più rilevante della popolazione italiana, in ragione dell’aumento dell’aspettativa di vita che caratterizza il Paese ormai da anni – arrivata nel 2022, dopo la momentanea battuta d’arresto legata alla pandemia, a 84,8 anni per le donne e a 80,5 anni per gli uomini – e a causa della bassa natalità. Le persone con 65 anni e oltre (più di 14 milioni) rappresentano oggi il 24,1% della popolazione complessiva e sono in costante aumento: secondo lo scenario mediano delle proiezioni demografiche, nel 2050 saranno 4,6 milioni in più rispetto a oggi e peseranno per il 34,5% della popolazione totale (tab. 32). 

Mentre solo un terzo degli anziani di oggi pensa che sul piano economico stia vivendo una condizione peggiore di quella dei propri genitori, la consapevolezza di una vecchiaia più problematica viene richiamata dal 75,4% dei rispondenti più giovani (dai 18 ai 34 anni).

È facile prevedere che gli anziani di domani saranno più soli: saranno sempre di più anziani senza figli. Il numero delle famiglie aumenterà proprio perché saranno di dimensioni più piccole: il numero medio dei componenti delle famiglie scenderà dai 2,31 del 2023 ai 2,15 nel 2040. Le coppie con figli diminuiranno fino a rappresentare nel 2040 solo il 25,8%. Aumenteranno le famiglie unipersonali fino a 9,7 milioni (il 37,0%). Tra di esse, quelle costituite da anziani nel 2040 diventeranno quasi il 60% (5,6 milioni). Gli anziani che vivono da soli saranno in prevalenza donne: se oggi, tra le donne che vivono da sole, il 63,6% ha più di 64 anni, nel 2040 si arriverà al 71,7%, contro il 40,4% di uomini anziani sul totale degli uomini soli.

Le difficoltà legate a una mancata o insufficiente risposta ai bisogni assistenziali, o dipendenti dalla carenza di relazioni sociali, potrebbero risultare perciò più rilevanti per la popolazione degli anziani di domani, che vivranno da soli in misura maggiore di oggi. 

Inoltre, erano 1,9 milioni gli anziani con gravi limitazioni funzionali nel 2021: il 13,7% del totale degli anziani e il 63,1% del totale delle persone con limitazioni in Italia. Si tratta di un dato in diminuzione, visto che nel 2012 erano pari, rispettivamente, al 15,7% e al 64,1%. Ma le stime per il 2040 mettono in luce che una quota non indifferente (pari al 10,3%) continuerà ad avere problemi di disabilità legati a tali limitazioni, e aumenterà il loro peso sul totale (67,2%). Rimane quindi sul tappeto il tema ineludibile del bisogno assistenziale legato agli effetti epidemiologici dell’invecchiamento, con il peso delle malattie cronico-degenerative, aggravato, ancora una volta, dall’impatto delle dinamiche demografiche.

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