È uno dei motivi per cui adoro fare le interviste a casa dell’intervistato. Ficcare il naso nelle sue cose, vedere l’interno del frigorifero, immaginare l’ordinata e regolare vita che lì si svolge. Lì dentro è tutto meglio disposto che a casa mia. Ogni cosa è al suo posto. Tutto è abbinato alla perfezione. I colori sono pertinenti. Perfino l’aria pare più carica di ossigeno. O almeno così mi pare. Ci sono un silenzio, una serenità, una pacificazione, sebbene i due piccoli figli se le stiano dando di santa ragione e la sorella maggiore stia gracchiando in modo disumano nel tentativo di dividerli. Tutto ciò mi dà una vertigine.
La stessa cosa mi accade quando portando il cane fuori, all’imbrunire, sbircio nelle villette o negli appartamenti del primo piano… La mia idea di paradiso è più o meno questa. Osservare per l’eternità case che non sono le mie, nella quiete del crepuscolo. Ordinarie esistenze famigliari colte al momento di sparecchiare la tavola, di caricare la lavastoviglie, immaginando le parole colme di saggezza che riempiono l’aria. La casa è più grande della mia, più bella, meglio progettata, antisismica, pare costruita apposta per suscitare l’invidia altrui.
Per non parlare delle famiglie. Quelle, poi! Nelle famiglie degli altri funziona tutto meglio. Ci sono dialogo, affetto, mutuo aiuto e sdolcinerie da farti venire il diabete. Successi nel lavoro e nello studio sono all’ordine del giorno. L’ammirazione è generale. Quella famiglia entrerà nei libri di storia della perfezione umana. Che bello!
Ma eccolo il punto: l’invidia mi fa stare bene. Mentre al resto del genere umano provoca danni, a volte irreversibili, al fegato, a me fa lo stesso effetto di quindici gocce di Lexotan prima di andare a dormire. È come un abbraccio. La sorte ti stringe a sé, compatendoti nella tua miseria, nel tuo non essere all’altezza di quella gente lì, facendoti però sentire amato come non mai.
Che posso farci se uno dei padri della fenomenologia, il filosofo tedesco Max Scheler, sosteneva che l’invidia tormenta e intorpidisce l’esistenza e produce una sorta di «autoavvelenamento» dell’anima e quindi fonte primaria di stress? Per me non è così. Soprattutto perché credo di aver capito un concetto fondamentale. E cioè che quando si invidia qualcuno è solo perché si scatena un raffronto assolutamente irrazionale, quanto assurdo. E il disagio che proviamo nell’ammirare case perfette, auto lussuose, famiglie felici non deriva da un’effettiva disparità, ma dalla nostra stessa insoddisfazione che – proprio come un raggio di luce – va a rimbalzare su quelle case e su quelle automobili e ci ripiomba addosso, verosimilmente incrementata. Più siamo insoddisfatti di noi stessi, più rosichiamo.
Eppure basterebbe così poco per trasformare quell’invidia in ammirazione, non vi pare? Ma vivaddio, se proprio non riusciamo in questo prodigio, nel tentativo di volgere a nostro favore l’apparente supremazia altrui, volgiamo quanto meno altrove lo sguardo. In fondo, lo stesso termine invidia deriva dal latino “guarda sopra”, e cioè “guardare con astio”. D’altra parte come dimenticare la raccapricciante punizione, stile “Arancia meccanica”, che Dante prevedette nel suo Purgatorio proprio per gli invidiosi? Le palpebre cucite da fil di ferro: così sono chiusi gli occhi che invidiarono e gioirono dalla vista dei mali altrui.
PS: A proposito: quell’Alighieri, quanto scriveva bene… Che invidia!