“La mia città. Una storia quasi d’amore” è il quarto libro di Valentino Corona, nato a Transacqua, nonché il secondo ambientato a Trento, dove oggi risiede. Edito da Curcu Genovese, il racconto dello scrittore trentino, laureato in filosofia prima e in glottodidattica poi, per lungo tempo insegnante nelle scuole superiori in Svizzera e Germania e poi lettore in diverse università estere, si rivela però fin dalle prime righe uno strano e particolare modo di raccontare più che un luogo, un modo di sentire e vivere la vita. Quasi fossimo di fronte a uno Zibaldone di pensieri sotto mentite spoglie – e di certo ben lontani dai saggi di viaggio con cui Corona si è affermato (uno su tutti “Meglio non chiedere. Volevo solo andare a Santiago” del 2014) – Trento appare ben poco il centro della questione, così come frutto di un amore molto spesso legato a doppio filo al suo sentimento opposto. È con l’autore stesso allora che proviamo a districare gli intenti, i messaggi, le ispirazioni di questa sua ultima fatica che ha per protagonisti Stefano e Gianluca, due amici, alle prese con una serie di incontri bizzarri.
Da quanto tempo vive a Trento, e perché ha sentito il desiderio di scrivere questo omaggio (almeno nel titolo) alla città?
Ho vissuto gran parte della mia vita in giro per l’Europa, tra Zurigo, Berlino, Colonia, Bratislava e Pola. Ora, dopo il pensionamento, sono tornato qui. Ma l’ispirazione a un’ambientazione trentina viene – dopo i primi libri che, appunto, si collocavano al di fuori, da Santiago di Compostela alla via percorsa della Transiberiana – dal suggerimento di un amico. Già “La ragazza col cappotto grigio”, del 2019, aveva luogo a Trento, ma questa volta ho voluto cambiare anche il tono del racconto.
Ci spieghi meglio.
Desideravo scrivere qualcosa di umoristico e un po’ provocatorio, che toccasse temi irriverenti come la transessualità o l’evasione dal reale (i funghi allucinogeni). Il risultato è un romanzo che io definirei picaresco, in cui i due protagonisti inanellano avventure che non hanno alcuna relazione l’una con l’altra, che non conducono da nessuna parte, ma che suscitano semplice meraviglia. Un modello – anche se in una chiave certo più indisponente – può essere “Pinocchio”. Il filo conduttore, per me, è infatti stato il desiderio di essere al di fuori del conformismo, di affermare la mia libertà di scrittore, di cambiare il tradizionale punto di vista di osservazione delle cose.
Mi viene in mente in questo senso uno dei protagonisti, accusato dalla zia di vivere in un mondo immaginario. Quanto conta per Lei questo irreale?
Ho sempre avuto un rapporto problematico con la cosiddetta “realtà”, con il fare le cose nel modo “normale”. Basti pensare che mi sono sposato tardi, solo qualche anno fa. Più in generale potrei dire, usando termini freudiani, che nella vita ho sempre seguito più il principio di piacere che quello di realtà.
E quanto c’è di tutto questo e di Lei nei personaggi?
È chiaro che tutto questo mio modo di agire e pensare si ripercuote sul romanzo: per quanto uno scrittore cerchi di allontanarsi e distaccarsi dai propri personaggi, infatti, quando li fa parlare o ne descrive le dinamiche emotive, in fondo ci mette sempre qualcosa di suo. Credo sia impossibile scrivere qualcosa che non sia un riflesso di se stessi.
Dalla Chiesa del Santissimo Sacramento in avanti, lo sfondo della città di Trento è piuttosto riconoscibile. I personaggi che Stefano e Gianluca incontrano sono altrettanto ispirati alla città vera?
Il solo legame tra personaggi e città è dato dai riferimenti geografici, appunto, o storici. L’effetto, a mio avviso, è quasi più quello di una scenografia teatrale, in cui le figure si muovono. È Trento, ma potrebbe essere qualsiasi altro luogo. Non c’è dunque nessun riferimento a persone specifiche – dalla scrittrice impegnata, all’odoratore di libri, allo sciamano –, quanto più un insieme di atteggiamenti, di tratti della gente, caricaturizzati in personaggi.
A proposito di odoratore di libri. Secondo Lei un buon scrittore deve davvero leggere 100 libri all’anno?
No, assolutamente. Io ne leggerò sì e no la metà. Un buon scrittore è prima di tutto un buon lettore, e quindi i libri li legge con attenzione, facendoli sedimentare.
Si ritrovano molti suoi interessi, tra le pagine, infatti…
Sì, sicuramente. Si ritrovano dagli studi superiori classici, alla passione per la storia, fino ad arrivare alla simbologia sacra di René Guénon, che fu a suo tempo per me una lettura folgorante, che mi cambiò la vita.
Tornando all’ambientazione trentina, il finale col finto bombardamento lascia intendere un senso diverso di quel “quasi amore” del titolo, giusto?
Giusto. Quella scena nasce dalla mia voglia di bombardare Trento, in senso figurato, ovvio. Chiaramente lascia intendere quanto poco io mi ci senta a mio agio. La trovo, di fatto, una città noiosa, che vive della presunzione di essere una delle migliori, ma che poi sul piano culturale, è molto fiacca. È una città di cui mi interesso poco in termini di attualità o politica, e che sento, tutto sommato, ostile.
Quindi l’amore è poco. Qual è invece una città che ha davvero amato?
I periodi più belli li ho vissuti a Firenze, che tuttavia negli anni ‘70 era molto diversa da oggi. Ora credo sia eccessivamente congestionata. Quindi credo farò ricadere la mia scelta su Berlino, una città viva, efficiente e piena di cultura.
Il Suo libro però si chiude con un accenno ad un altro luogo, l’America. C’è l’idea di un sequel?
Non lo so, non ho un progetto in merito. “La mia città” è stato scritto nell’ultimo anno (l’anno del Covid, a cui si fa anche riferimento n.d.r.), proprio sulla base di quel desiderio di libertà scrittoria di cui parlavo poco sopra, quindi non ho mai ragionato davvero sul seguito. L’America di cui parlano i due protagonisti con la barista è, insomma, di fatto solo un riferimento ad un luogo per me mitico, immaginifico, simbolo di quell’apertura che ricerco nella vita e stavo ricercando mentre scrivevo: è un luogo immaginario, è musica, è letteratura.