A quando un senso civico per l’interesse collettivo? 

Siamo qui a metà settembre in una delle tante isole della Dalmazia che, verso sud, fanno da corona alle Cornati, in Croazia. Una di quelle isole dove noi italiani non andiamo perché, da Milano a Gallipoli, non sappiamo rinunciare ai nostrani idoli di cartapesta. Eppure qui c’è sole, mare, pesce, gentilezza e soprattutto senso civico. La gente si saluta la mattina dicendo “Doberdan” (Buongiorno) Andrè se non si conosce. Si respira aria collaborante che in Italia è sparita da un bel po’.

Senso civico è un certo modo di comportarsi reciprocamente da parte dei cittadini. Significa parcheggiare senza occupare passi carrai o rovinare aiuole o prati, costruire senza consumare tutto il suolo, senza strapotere del privato su ogni prospettiva pubblica. Ma anche vedere solo spiagge pubbliche con docce e con parcheggi: tutto gratis. Tutto è pulito, non perché ci sia un servizio pubblico sviluppato e tempestivo, ma perché nessuno sporca. Spesso c’è una scopa sulle spiagge, che qualcuno ha portato e che è a disposizione di tutti. I beni comuni sono di tutti, e tutti contribuiscono spontaneamente a mantenerli. “Roba del Comun, roba de nesun” recita invece un proverbio dalle nostre parti, disegnando in due parole il problema nostro, che è lo stesso a Trento come a Palermo.

Sappiamo tutti di cosa parliamo: anche il ciccotto per terra è questo (sarà mica tutto colpa del mio unico ciccotto?).

Qui non succede, pare. È bontà innata? No. È senso civico.

Ma quale senso civico? direte voi, ma se i Croati si sono massacrati tra di loro fino all’altro ieri!

È vero. Ma senso civico non vuol dire solidarietà; piuttosto vuol dire in qualche modo comunanza di intenti, che può germogliare anche in comunità nate da battaglie aspre e sanguinose tra interessi contrapposti. Si sa, la Storia qualche volta non guarda in faccia nessuno e non si ferma davanti a nulla, come quando dopo il 1944 si diceva che “Pietà l’è morta”. E anche se va riconosciuto che noi Italiani siamo riusciti a evitare una vera guerra civile, va pure detto che fu solo per un soffio e forse perché non eravamo ancora una nazione, come ben sapeva Massimo D’Azeglio quando a Cavour, si dice, scrisse “l’Italia è fatta; ora bisogna fare gli Italiani”. Quanta strada abbiamo fatto noi? Tanta. Ma, mi pare, in buona parte perché costretti con minacce di sanzioni e perché il livello del sudiciume ci arrivava ormai alla bocca. E speriamo di riuscire davvero a contenerlo.

Il senso civico, inteso come un agire spontaneo che ha di mira l’interesse collettivo, noi non lo abbiamo ancora fatto nostro. Certo è più facile su un’isola e in una Croazia che ha 1/15 degli abitanti dell’Italia (4 milioni contro i 60) in un territorio che è invece oltre 1/5, dove c’è posto per tutti. Ma certo intervengono altri fattori. Non ultimo, credo, l’abitudine all’autogestione rimasta sottotraccia dopo la disgregazione della Repubblica socialista federale di Jugoslavia diretta dal maresciallo Tito e durata dal 1945 per 40 anni, che proprio sulla pratica della “autogestione di aziende, campi e fabbriche da parte dei lavoratori” si fondava. E forse si può dire che, passato il durissimo periodo crisi bellica 1992-1995 e oltre, causato dagli odi “etnici” dei nazionalismi che la insanguinarono per diversi anni, qualcosa di buono è rimasto ed è di esempio.

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Pubblicato da Stefano Pantezzi

È nato a Rovereto nel 1956 e cresciuto a Trento, vive a Pergine Valsugana. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, è avvocato da una vita. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Come una nave d’acqua” (2018) e alcuni racconti in antologie locali. “Siamo inciampati nel vento” (Edizioni del Faro) è il suo primo romanzo.