Boicottiamo il calcio arabo: fa male alla nostra comunità

È da un po’ di anni ormai che i ricchi sceicchi arabi investono nel calcio, come è diritto loro e di tutti gli imprenditori nel mondo. A volte questo intervento ha spostato gli equilibri storici del gioco, arricchendo improvvisamente squadre senza un grande blasone e senza un grande seguito. Niente di grave, comunque, viste le proporzioni del fenomeno, che era limitato fino ad ora a una manciata di squadre in Europa.

Quello che è successo nell’ultimo anno, però, è molto diverso. Dopo l’acquisto di Cristiano Ronaldo, un anno fa, come testa di ponte, nel giro di pochi mesi sono arrivati in Arabia Saudita alcuni tra i più forti giocatori del mondo. Per l’esattezza parliamo di trenta giocatori, complessivamente pagati 955 milioni di euro (più gli stipendi). Un’altra differenza ha caratterizzato gli acquisti arabi del 2023: se prima i giocatori in partenza erano a fine carriera, fenomeni ormai solo in cerca di una ricca buonuscita, quest’anno sono partiti per l’Arabia molti atleti nel pieno della forma, potenzialmente all’apice della carriera. Non si tratta più dell’acquisto di semplici sponsor per un campionato emergente, ma di veri e propri innesti per alzare bruscamente il livello del calcio locale.

Perché questo cambio di tendenza, che è potenzialmente tra l’altro all’inizio del suo percorso, può fare male alla nostra comunità? Innanzitutto, il calcio nostrano è in crisi, e non solo per i risultati della nazionale o per la povertà delle società di Serie A. I dati ci dicono che è sempre più scarso l’interesse dei giovani, sia per l’ormai difficile attaccamento a una tifoseria (fatta eccezione per alcune piazze calde) sia per la difficoltà di concentrazione dei nuovi giovani tifosi, che faticano a seguire una partita di 90 minuti. Piu che di calcio, ormai, si parla di fantacalcio, schedine, gossip relativi ai calciatori, e per evitare ogni noia oggi si seguono bulimicamente in contemporanea anche quattro campionati diversi (ovviamente con superficialità giusto per avere un argomento di cui parlare), oltre ad altri sport di tendenza.

Questa crisi del calcio come lo conosciamo non è per forza drammatica, perché c’è di peggio, ma va a colpire senza dubbio uno dei pochi collanti ancora rimasti nel nostro paese, sia a livello nazionale che a livello locale. Aldilà dei gusti estetici e filosofici, l’importanza di un gioco capace di unire un popolo non si può sottovalutare, e rappresenta comunque un elemento culturale, che contribuisce a creare una narrazione collettiva. Pensiamo alla scena tipica italiana della domenica alla radiolina ad ascoltare in diretta le partite. Per noi quello è stato il nostro mondo, così come per gli americani sarà stata la diretta del football o del baseball. È bello sia cosi, così come è bello il mangiare cibi diversi.

A questa nostra parte di cultura, quindi, sta forse arrivando il colpo di grazia. L’esempio più fulgido ed emblematico è stata la rinuncia di Roberto Mancini alla nazionale italiana per allenare quella araba. Non serve essere dei romantici per soffrire a questo fatto. L’allenatore che ha portato alla vittoria degli Europei lascia la nazionale (e chi non vorrebbe allenarla?) a nove mesi dal prossimo campionato, per andare ad allenare una squadra senza tradizione, con giocatori che non parlano neanche inglese, per uno stipendio dieci volte più alto. Va bene che non esistono più le bandiere e le leggende, però c’è modo e modo.

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Pubblicato da Alessandro Zanoner

Nato a Trento nel 1993, insegnante di italiano, latino e storia nelle scuole superiori. Suonatore di strada con umili tentativi da cantautore e scrittore. Mi piacciono la montagne e il Mar Tirreno; viaggio con una buona frequenza, soprattutto in centro Italia. Un pomeriggio a Roma una volta all'anno, minimo. Pavese, Moravia ed Hermann Hesse i miei autori preferiti in narrativa. Per la musica De Gregori, Vinicio Capossela, Lucio Battisti e Giovanni Lindo Ferretti.