Attraverso lo jodler la natura si disvela

Fin da piccolo ero affascinato dai gorgheggi dei cantanti di jodler. Al di là delle parole, per la maggior parte banali e stereotipate, era l’intermezzo cantato a squarciagola che mi catturava e mi inchiodava: il suo sfiorare il falsetto e l’innalzarsi verso le cime innevate per poi precipitare negli oscuri abissi. Quello dello jodler è un suono nato nelle vallate alpine austriache e svizzere, con lo scopo di rinnovare il contatto sonoro tra gli isolati pastori oppure per richiamare il bestiame o per una richiesta di soccorso, e scaturisce dall’uso di vocali o sillabe di puro valore fonetico con continui e improvvisi passaggi dal registro di petto a quello di testa. Questo utilizzo della voce è testimoniato a partire dal 1796 quando un cantante, Emanuel Schikaneder, lo introdusse come intermezzo vocale dei suoi lied. In realtà questo tipo di richiamo è noto in tutto il mondo ed è caratteristico degli abitanti che vivono in regioni montagnose e isolate e che sfruttano la tecnica della voce per sopperire alla vicinanza e al contatto fisico; e la bitonalità dei suoni emessi risulta essere la più percepibile all’orecchio.

L’amore per lo jodler mi ha accompagnato per tutti questi anni e quando sentivo riecheggiare questo suono melismatico e ondulatorio in qualche malga tirolese non nego che il mio cuore si allargava e le mie orecchie si tendevano per catturarne ogni sfumatura, mentre lo sguardo rincorreva le nuvole rimbalzando di cima in cima, sollevando talvolta lo stupore di chi era accanto a me, che pensava: «guarda guarda, il lettore di tanta mistica ebraica e scita, il viaggiatore errante nei mondi iconografici e il frequentatore della musica blues, rock e pop degli anni Settanta si fa incantare dagli jodler…».

Talvolta quasi me ne vergognavo, altre volte la mia difesa si arrampicava sui muri. Però sentivo che in quei canti c’era qualche cosa di più profondo, di più “esteso”, di più arcaico, quasi fosse un suono sacro che usciva direttamente dalle profondità delle rocce, che scaturiva dalle acque impetuose nate dai ghiacciai, dallo stormire delle fronde, dal connubio tra il fischio dell’aquila e il rotolare dei sassi lungo un canalone.

Poi la lettura di un testo del musicologo Kurt Huber (Coira, 1893-Monaco di Baviera, 1943), passato alla storia più per essere uno dei fondatori del gruppo antinazista della “Rosa Bianca” – e per questo ghigliottinato – che per i suoi studi sulla musica e sul filosofo Gottfried Leibniz, ha giustificato la mia passione per questi suoni. Sì, è vero, c’è qualche cosa di antico e di sacro in questo suono che rimbalza di parete in parete e di valle in valle. È un suono che accomunava il pastore allo sciamano: entrambi sparavano i canti verso il cielo, come fossero frecce, affidando i suoni al vento. Ebbene, Kurt Huber definì lo jodler qualcosa di originariamente «allegro e nello stesso tempo profondamente triste». Quindi un sistema binario di alto e basso, di dentro e fuori, di petto e di testa. Un grido che collega il basso con l’alto, la sfera materiale con quella spirituale: gli orientalisti direbbero che un cordone ombelicale è stato steso tra il chakra del cuore (petto), dell’amore vivente, con il settimo chakra, ovvero della corona, posizionato sopra la testa, dove si trova la fontanella, il centro che ci mette in relazione con la nostra parte spirituale.

Una leggenda svizzera racconta che lo jodler sia nato da un pastore che ascoltò il grido del gufo, al contempo canzone di giubilo e di penitenza. Un canto organico, armonico con una natura che svela tutti i suoi aspetti spettacolari, di vita ma anche di morte. Un canto quasi religioso, sicuramente sacro, frutto di una dottrina arcaica dove il grido creatore è considerato insieme doloroso e liberatorio, conforme alla struttura binaria del grido sacrificale e comprende in sé tanto il pianto quanto il riso.

Il mio amore giovanile per lo jodler – ma non ce n’era bisogno – ha trovato la sua motivazione. O forse ha riportato in superficie antichi legami oggi dimenticati.

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com