La bambola femminista

I pattini a rotelle di Impala Skate, le scarpe di ALDO e Superga, gli smalti di OPI, le collezioni make up di NYX, gli spazzolini di Moon, le valigie di Beis, gli abiti di Gap, Forever21 e Zara, i costumi di Funboy, le candele di Homesick, le borse di Kipling, gli hamburger di Burger King, i tappeti di Ruggable, tutto, negli ultimi mesi, sembrava essersi tinto di rosa per quella che è stata forse una delle più mastodontiche campagne di lancio di sempre, l’attesissimo “Barbie” di Greta Gerwig. Una smania collettiva che ha portato a installazioni per selfie “nella scatola” praticamente in ogni parte del mondo, all’adeguarsi in cromia delle ricerche su Google (provare per credere), e addirittura all’apertura della “casa di Barbie” a El Pescador a Malibu, disponibile su Airbnb per una vera esperienza immersiva. Ma se l’hype commerciale era altissimo, il film, poi, ci ha davvero ripagato dell’attesa e del bombardamento commerciale/mediatico subito? Insomma. 

Penne – fianco a fianco – di questa agognatissima sceneggiatura, Greta Gerwig e Noah Baumbach, che per chi mastica un po’ il cinema sono già associate a pellicole come “Frances Ha” e “Storia di un matrimonio”. Due che sanno scrivere e che, di certo, ce lo hanno dimostrato anche stavolta, da un lato col tentativo di mettere in piedi (nonostante le pressioni dall’alto) una storia che fosse meno stereotipata della sua protagonista, dall’altro giocando su una commedia che qualche volta sa anche davvero far ridere. La Barbie impersonata da Margot Robbie è quindi una Barbie che vive in un mondo anti-patriarcale per eccellenza, in cui tutte le donne possono essere ciò che vogliono e avere quello che desiderano, mentre gli uomini quasi fanno da corredo (e il gioco degli estremi avrebbe davvero potuto essere efficace per tentare una considerazione sulla nostra società). È una Barbie che scopre la sua umanità fuori dall’essere bambola, che si mette in viaggio e finisce per imbattersi nelle etichette (pure di “fascista”) e nelle colpe che le vengono date nel mondo reale. Eppure, qualcosa non si chiude, in questo cerchio filmico, dal finale buonista che rimarca l’importanza dell’essere se stessi, all’enorme e innegabile spettro che aleggia su di esso: alla fine “Barbie” è un film finanziato e voluto dalla Mattel stessa e quindi sì, possiamo divertirci ma mai criticarci troppo aspramente; e quindi sì, possiamo destreggiarci per due ore col femminismo, ma mai dimenticare che il fine ultimo è la vendita, è il commercio, è il prodotto – non a caso uno di quelli che hanno simboleggiato il capitalismo per qualche decennio -. 

Forse, benché non stiamo parlando di un capolavoro e non possiamo accantonare lo smaccato obiettivo di vendere bambole, la nota positiva è che stiamo intanto anche vendendo il cinema: il primo giorno di proiezioni in Italia ha portato oltre 2 milioni di incassi. Una sferzata di cui questo mondo in crisi aveva bisogno.

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.