Non è un film d’amore

Di pietre miliari nel cinema lgbtq+ come Estranei (All of Us Strangers), nonostante la massiccia produzione dell’ultimo ventennio, forse, non se ne vedevano dai tempi de I segreti di Brokeback Mountain

Liberamente tratto dal romanzo omonimo di Taichi Yamada del 1987, il film diretto da Andrew Haigh – che già in passato aveva firmato degli interessanti lungometraggi come Weekend nel 2011 e Charley Thompson (Lean on Pete) nel 2017 – tocca gli apici del dramma, trascinando lo spettatore lungo una delicata e romantica vicenda, il cui colpo di scena finale non può che lasciarlo in lacrime, spaesato, seduto sulla poltroncina rossa tra i titoli di coda che scorrono. Mai sopra le righe, mai eccessivo, mai forzato, ma, al contrario, sempre degno di quella delicatezza e poesia a cui Haigh ci ha abituato coi suoi lavori precedenti, Estranei è il film perfetto per chi cerca un cinema che sia empatia, che dia emozioni vere e profonde. 

Al centro della pellicola, la storia d’amore tra lo sceneggiatore Adam, impersonato da Andrew Scott (che non dimenticheremo mai nel ruolo del prete nella serie di Phoebe Waller-Bridge, Fleabag) e il suo giovane vicino di casa Harry, un incredibile Paul Mescal (che riduce a zero anche tutta la recente polemica sugli attori etero che non dovrebbero interpretare parti queer). Un amore che è un incontro di due immense, tormentate solitudini: da un lato, la perdita dei genitori in giovanissima età, dall’altro, delle non troppo celate dipendenze. Due uomini persi, due uomini tristi, che nel contatto reciproco riscoprono la bellezza e la gentilezza del mondo e dei gesti, la forza dell’avere qualcuno che ti ascolti davvero e stringa quando piangi disperato.

Eppure, Estranei non è un film d’amore, perché non è qui, in questa definizione, che lo si può esaurire. È nel mondo che Adam ricrea, infatti, che sta la vera potenza di una pellicola che, altrimenti, avrebbe anche potuto scadere nel già visto e nel banale: sono gli scenari, i sogni, le fantasie in cui Adam ritrova i suoi genitori (interpretati da due altrettanto bravi Jamie Bell e Claire Foy), ci dialoga, ci fa pace e ricuce le sue più laceranti e intime ferite, il cuore pulsante di questo lungometraggio. Un mondo parallelo, immaginario, che via via perde i suoi confini netti, finendo per sembrare reale, concreto e tangibile. Un mondo di fantasmi, che però non sono esseri spaventosi né prodotti di una mente schizofrenica, ma – di nuovo nell’assoluta delicatezza di Haigh – solo strascichi della sofferenza e della solitudine, solo braccia accoglienti a cui stringersi. Un mondo che collasserà su se stesso, fino a quel drammatico, inaspettatissimo finale, lì, pronto a colpire lo spettatore come una lama affilata. 

Sguardi, campi lunghi e contrasti interiori

Basato su uno dei racconti della serie del Wyoming di Annie Proulx, I segreti di Brokeback Mountain, diretto da Ang Lee (2005), è considerabile uno dei film che hanno segnato un genere. Vincitore di una serie lunghissima di premi, tra cui un Leone d’Oro e qualche Oscar, il lungometraggio ha al suo centro l’amore indicibile, osteggiato dal tempo, dal luogo e dalla società, – il bigotto e omofobo Wyoming degli anni ‘60 – tra Ennis Del Mar (Heath Ledger) e Jack Twist (Jake Gyllenhaal). Un film che si dilata nelle attese, negli sguardi, nei campi lunghi sui paesaggi, ma la cui forza sta nei contrasti interiori dei personaggi (in particolare di Ennis), combattuti tra l’apparenza, i doveri e l’agire secondo le aspettative sociali e, dall’altra, i sentimenti.

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.