18 marzo 2020. Un anno fa, la notte in cui la città ci parlò

Non ho mai avuto una mia città. Nel senso che non ho mai fatto a tempo a viverci abbastanza a lungo per potermici affezionare. Eppure solitamente ognuno ha la sua: la ama, la detesta, ne parla male, bene, ma ce l’ha. È la “sua” città. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”, scriveva Cesare Pavese. È un’appartenenza che non ho mai avuto la fortuna di sperimentare. Così, col tempo, ho cominciato a disegnarmela mentalmente una mia città ideale. Ne ho addirittura progettato le strade, le piazze, ne ho ideato la storia, gli uomini, le battaglie, la mitologia. E piano piano ho preso l’abitudine di parlarle. Sì, però come si fa con un bambino molto piccolo: non sai se ti sta veramente capendo, ma gli parli lo stesso.

A furia di progettarla, pensarla, di darle una forma e una vita, la città ha cominciato ad esistere. Il mio desiderio di avere delle radici aveva fatto sì che potessi davvero figurarmela, e farmici camminare dentro. Tuttavia, tendevo l’orecchio, ma essa non mi parlava.Così cominciai a osservarla, questa città. A studiarne le espressioni, i movimenti, i respiri; perché anche le città hanno volto, braccia e polmoni, non lo sapevate?

C’era questo problema, però. La città continuava a non parlarmi. Allora pensai che forse dovevo fare più attenzione. Andare più in profondità. Ecco perché smisi di guardarla e la “vidi”. La riconobbi. Vidi gli appartamenti sfitti, i venditori abusivi, le serrande abbassate. Perché era questo quel che accadeva.

L’epidemia aveva raggiunto il suo culmine, la curva dei guariti da quel momento in poi avrebbe potuto solo crescere, eppure le serrande si abbassavano sempre più. I morti erano sempre troppi. Pezzi di città che se ne andavano per sempre.Una delle conseguenze del non avere una città d’origine è che non hai nemmeno una lingua, un dialetto attraverso il quale comunicare ciò che ti porti dentro. Parole dal suono insolito, esclamazioni saltellanti, aggettivi incomprensibili e congiunzioni a cui affidare i messaggi dell’anima. Perché anche le città hanno un’anima. E percepiscono l’amore, la cura, l’orgoglio dei propri cittadini. Dev’essere per questo che una notte, passeggiando per le strade deserte, vidi uno strano segno in cielo. Una cometa o forse un disturbo visivo. Non sono sicuro che ci sia poi tutta questa differenza.

Fu così che quella notte la città cominciò a parlarmi.Mi parlò, quella notte, la città. La “mia” città. E naturalmente parlò nella sua lingua. All’inizio mi parve di essere in un sogno. Camminavo con lo sguardo rivolto verso il cielo notturno, gli ultimi piani dei condomini, quindi i palazzi storici, i monumenti che i semafori – inutili a quell’ora – si divertivano, lampeggiando, a colorare. Fu come un respiro, all’inizio. L’alito materno che da ragazzino ti rassicura. Il debole flusso d’aria che il tuo bimbo appena nato scambia con l’universo e che ti permette di certificarne il suo essere in vita.Mi parlò quella notte la città e fu come un abbraccio. Una musica, bellissima e consolante, quelle incomprensibili sillabe che andavano dritte dritte in fondo al cuore. E mentre parlava, pareva muoversi, gesticolare, indicare cose e persone. Non ci misi molto a capire di cosa si trattava. Erano le storie di chi lì ci aveva abitato, costruito, lottato contro ingiustizie, egoismi, crisi economica, guerre e malattie.

Quindi venne il silenzio. Improvviso. Era quasi l’alba, ormai. La città restò lì a guardarmi con le braccia conserte, gli occhi puntati verso l’alto. Ogni tanto tornava a fissarmi, e poi di nuovo lassù, come ad invitarmi a fare lo stesso. Non lo si pensa quasi mai, ma dove c’è una città c’è anche un cielo, il pennone su cui garrisce la bandiera di questa città, il petto su cui si appuntano insegne e medaglie al valore, il cenotafio dove si onora il ricordo dei propri morti.La notte in cui la città mi parlò, vidi quel cielo danzare, aprirsi, illuminarsi. E la vidi piangere, questa città, di un pianto liberatorio e consolante. Ma non era la sola.

Quella notte, ogni città aveva il nome di tutte le altre. Lo stesso nome che si sentiva vibrare nell’aria come un grido di protesta, una rivendicazione, un riaffermare il proprio ruolo, una paternità e una maternità, un’origine. Come chiedere una carezza. Niente promesse, solo una carezza, almeno quella, per favore. E poi avremmo potuto assistere assieme allo spettacolo del cielo che era uno schermo, adesso, su cui, come fotogrammi di un vecchio film muto di inizio ‘900, vennero proiettati ricordi. La trama era confusa, c’erano immagini di ospedali, medici, infermieri tanti; e lacrime, militari, grafici, volti mascherati, guanti, strade deserte, paura, quiete, infine. Quel film narrava la storia di una rivincita. Una città, quella città, che si rialzava, luminosa, gloriosa, dopo essere caduta. Ecco cosa vidi, la notte in cui la città mi parlò.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.