Una violenza individuale, ma anche sociale

Certi interrogativi ritornano dopo ogni caso di femminicidio. Cosa caratterizza questa violenza “di genere”, oggi? Parlo di violenza in tempo di pace, non di quella praticata nel quadro di una guerra, come quella dei greci verso donne troiane dopo la presa della città, o quella usata oggi dalle milizie di tutto il mondo per ragioni che è tragicamente facile comprendere: l’estremo sfregio, l’impronta indelebile, genetica, sulle popolazioni sconfitte (oltre al fatto che, più banalmente, in tempi eccezionali, le regole “normali” saltano e si può dare libero sfogo agli istinti più perversi). 

Qualche decennio fa la violenza sulle donne veniva spiegata come una reazione del maschio all’emancipazione femminile. A me questa sembrerebbe oggi una lettura un po’ fuori dal tempo. Certo, il patriarcato, come lo chiamiamo, è duro da scalfire. Ma ciò che si vede dietro alla violenza commessa da tanti uomini sulle donne, in particolare sulle mogli, o fidanzate, donne comunque ben conosciute, a cui spesso l’aggressore è legato sentimentalmente, ha piuttosto i caratteri del narcisismo ed edonismo elevati all’ennesima potenza: il desiderio, la brama di avere tutto, di possedere tutto, di fare tutto, ma anche di essere liberi da tutto, e autorizzati a cancellare dal quadro chi ostacola questa estrema, smisurata sete di libertà. È questa una dimensione solo maschile? Probabilmente no. Ma lo è “di più”? E se sì, perché? Forse perché da tempo immemorabile l’uomo ha qualche possibilità in più di “realizzarsi”, nella vita (anche a scapito degli altri, familiari compresi). Mentre il destino della donna è segnato fin dalla nascita, ed in molte società, salvo eccezioni, lo è tutt’ora. La dimensione del femminile resta quella domestica. Resta la casa, l’ombra della casa, la stanza dietro la finestra schermata. Quella maschile è esterna alla casa, è pubblica. Ed è, per queste stesse ragioni, più “desiderante”. 

C’è anche un altro interrogativo sollevato dallo stillicidio delle violenze sulle donne. Proviamo a sintetizzarlo così: se la violenza dell’uomo è una violenza storicamente data (trascuro qui il dato biologico, su cui ammetto la mia impreparazione), interessa in certa misura tutti gli uomini? È lecito chiedere a tutti gli uomini di prendere le distanze da singoli episodi di violenza? Non nasconde, questa richiesta, una generalizzazione?  Se guardiamo ai singoli eventi, ognuno con dei protagonisti, con un nome e un cognome, non diventa un po’ impropria? La parte più avanzata della società in fondo respinge le generalizzazioni. Se uno straniero commette un delitto, noi non chiediamo a tutti gli stranieri al pari suo di scusarsi e di prendere le distanze. Ci sembrerebbe anzi non solo improprio, ci sembrerebbe razzista. Lo stesso dicasi per qualsiasi altra situazione di questo genere. La violenza commessa da un giovane basta a stigmatizzare tutti coloro che appartengono alla sua stessa classe di età? La violenza di un tifoso mette alla berlina tutti i tifosi? 

La responsabilità di ogni azione, a partire dal piano giuridico, è individuale. Su questo non c’è alcun dubbio.

Ma le concause, le circostanze, i fattori scatenanti, possono essere anche collettivi, sociali, di genere? Mi pare di sì.  Nelle terre di mafia si parla di cultura dell’omertà. E la storiografia recente ha parlato di dei tedeschi “comuni” come di “volonterosi carnefici di Hitler”, che non si macchiarono deliberatamente dei crimini dell’Olocausto, ma non cercarono neanche di evitarli, anzi, li assecondarono. Per lo stesso motivo, non è forse lecito parlare di una cultura diffusa del femminicidio?

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.