Chi trama nel cuore dell’Europa

Alcide De Gasperi con Konrad Adenauer, Robert Schuman e i ministri degli Esteri di Olanda e Lussemburgo. Consiglio d’Europa, Strasburgo, 1951

 “Mai più Auschwitz!” questo era stato il grido di Jean Monnet, quando, nel 1950, lanciò l’idea dell’unione europea. Jean Monnet, Robert Schumann, Alcide De Gasperi, Altiero Spinelli e gli altri che concepirono il progetto, forse utopistico, di un’unione fraterna dei Paesi europei, non erano rappresentanti di fantomatici poteri forti, come ai giorni nostri amano disquisire coloro che ventilano l’esistenza di chissà quali complotti. Erano uomini che avevano visto massacrare milioni di persone in due terribili conflitti mondiali e ne erano rimasti sconvolti. Ogni tanto è il caso di ricordare che la prima guerra mondiale causò la morte di trenta milioni di persone. La seconda, più di sessanta. Coloro che pensarono ad un’Europa unita avevano semplicemente cercato di dare una risposta alla domanda: che cosa possiamo fare perché una simile barbarie non trovi occasione di ripetersi?  

Una sorta di pigrizia intellettuale ci ha da tempo abituati ad accettare l’assunto che le guerre si combattano per “ragioni economiche”. È fin troppo facile obiettare che anche la pace normalmente scoppia per ragioni economiche. I popoli hanno sempre trovato il modo di intendersi tra di loro attraverso accordi economici che, sulla base della salvaguardia dei rispettivi interessi, permettano una convivenza pacifica. Il che porta con sé, tra le altre cose, la comprensione delle ragioni dell’altro e una sorta di empatia collettiva, condizione indispensabile per l’affermazione della pace.

L’elemento economico, cioè il desiderio di ricchezza e di benessere, che accomuna tutti gli esseri umani (salvo, si intende, monaci e idealisti radicali), gioca certamente un ruolo nei conflitti che fin da sempre hanno segnato tragicamente la nostra storia. Ma, se si considerano le spinte propulsive che nella modernità hanno fatalmente portato allo scontro armato, troviamo che la “ragione economica” non è stata che un elemento di superficie, una scusa, per così dire, con cui si è trovato un modo facile ed efficace per spingere degli uomini a uccidere altri uomini. Il vero demone che incita alla guerra è quello ideologico. Imporre il proprio modo di vedere e la propria volontà sull’altro, sia esso un individuo o un intero popolo, pare sia più appagante che un miglioramento delle proprie condizioni di vita (ciò che le guerre quasi mai portano con sé). E l’ideologia che storicamente si è dimostrata più potente è il nazionalismo. Che può essere definito in tanti modi, ma che in sintesi è la convinzione che il nostro popolo (o, se vogliamo, nazione), sia depositario di una superiorità intellettuale e morale, e che tutti i guai che lo affliggono siano causati da un qualche malvagio agente esterno. Da ciò deriva inevitabilmente l’elemento paranoico: gli altri popoli sono una costante minaccia alla nostra sopravvivenza. 

Jean Monnet ebbe a dire che il primo passo del nazionalismo è il sovranismo e l’ultimo è il razzismo. Auschwitz rappresenta dunque l’apice di una follia ideologica. Non per caso in Europa il diffondersi dell’antisemitismo moderno si accompagnò alla crescita dei movimenti nazionalisti, ammantandosi di giustificazioni sociali ed economiche: gli ebrei erano avidi, usurai, ricchi, sfruttatori, possedevano le banche, tramavano per sottomettere l’umanità, e altre simili farneticazioni di cui i protocolli dei savi di Sion e l’hitleriano Mein Kampf offrono una vasta rassegna. 

La costruzione dell’Unione Europea è stata una rivoluzione. Benché non segnata da sollevazioni popolari, barricate e quant’altro, ha prodotto un cambiamento di paradigma politico radicale. Purtroppo la progressiva scomparsa dei Padri fondatori ha appannato gli ideali originari ed è prevalsa la burocratizzazione. E così, alla poesia è seguita la prosa. Un’istituzione complessa come l’Unione Europea richiede necessariamente un ramificato apparato burocratico. Al centro del quale c’è la Commissione, istituto che negli ultimi trent’anni è divenuto il bersaglio degli attacchi di sovranisti e antieuropeisti vari, i quali non accettano che si tolgano competenze ai governi nazionali in favore di una politica comune, quando solo in questo il progetto di unificazione europea troverebbe la sua ragione di esistere. 

Come l’originale romanzo di Robert Menasse mette in luce, l’atteggiamento dei sovranisti, in realtà, è segnato da opportunismo e da contraddizioni. Ad esempio, nel momento stesso in cui essi respingono le direttive europee, chiedono all’Europa di proteggere certi loro interessi lobbistici. Inoltre, il sovranismo ha come effetto inevitabile l’acuirsi della competizione e dei contrasti tra gli Stati europei, ciò di cui gli stessi sovranisti poi si lamentano.  

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 È comunque un fatto che l’opinione pubblica ritenga che i burocrati di Bruxelles, più che il bene comune, perseguano i loro interessi personali, cioè carrieristici. La greca-cipriota Fenia Xenopolou, uno dei personaggi centrali del racconto, tende a confermare questo stereotipo. Concepisce la grandiosa idea di un Big Jubilee Project, una sorta di musiliana Azione Parallela (a cui, per altro, ogni tanto si accenna), per festeggiare il cinquantenario della nascita della Commissione, presentandolo come un tentativo di ridare smalto all’istituzione, ma in realtà puntando ad un miglioramento della sua posizione dirigenziale. La complessa architettura del romanzo, che è molto più di un thriller, si regge anche sulle vicende che riguardano altri personaggi, apparentemente lontani gli uni dagli altri. Ad esempio, l’impacciato professor Alois Erhart, il quale, nel corso di uno degli stanchi e rituali think-thank che si radunano nella capitale belga, si rende protagonista di un donchisciottesco tentativo di ridare voce e forza agli autentici valori fondativi dell’Unione. L’idea del professore è che il processo di unificazione debba trovare un ulteriore impulso con la totale abolizione delle frontiere, con la cancellazione sui passaporti dell’indicazione delle diverse nazionalità, e con l’ambizioso progetto di fondare una Capitale d’Europa, che dovrebbe godere di una sorta di extraterritorialità e di una collocazione geografica altamente simbolica. Forse è proprio il professore l’obiettivo del maldestro attentato che si compie all’Hotel Atlas, autore del quale è Ryszard Oswiecki, detto Matek, membro di una misteriosa organizzazione paramilitare polacca, dietro cui si intravede la longa manus del Vaticano. Le indagini sul delitto vengono affidate al commissario Brunfaut, il quale si troverà a confrontarsi con una vicenda molto più grande di lui. Del tutto enigmatica, infine, è la presenza di David de Vriend, un ebreo scampato allo sterminio, il cui destino sarà segnato dall’attentato di matrice islamica del 16-3-2016 alla stazione della metropolitana di Maalbeek/Bruxelles.

Ma il primo a comparire nell’esordio del racconto è un maiale che si aggira surrealisticamente per le vie del centro di Bruxelles (nel romanzo, per altro, di maiali se ne incontrano parecchi). C’è chi afferma di averlo visto, chi invece no, chi l’ha visto qua, chi là. La cosa attira l’attenzione dei media. Un quotidiano lancia un concorso on-line per dare un nome a quella fantomatica creatura. Così piovono diverse proposte: Miss Piggy, Madame Cochon, Jimmy Porcellino…  I lettori mettono un like per l’uno o per l’altro, finché qualcuno propone un nome che riceve immediatamente una valanga di gradimenti. Quale sarà?

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Pubblicato da Valentino Corona

Valentino Corona vive a Trento. Laurea in filosofia, master in glottodidattica. Ha insegnato nelle scuole superiori in Italia, Svizzera e Germania. È stato Lettore di italiano all’Università Comenio di Bratislava (Repubblica Slovacca) e all’Università “J. Dobrila” di Pola (Croazia). Ha pubblicato la raccolta di poesie Sola verità del cuore è la memoria (2012), il diario del Cammino di Santiago Meglio non chiedere. Volevo andare da solo a Santiago (2014) e il romanzo-saggio Blues siberiano (2017).