Cronache dall’inferno telematico

Cominciamo con cinque-esempi-cinque. Quel che basta per trascinarvi con me nei bassifondi dell’inferno dell’odio telematico, tra le altissime fiamme del fenomeno dell’hate speech, una forma di comunicazione, molto in voga, mirata essenzialmente a diffondere odio e pregiudizi sul web. L’odio è la sola forma di rivalsa dei deboli, dicono. E le praterie virtuali non fanno altro che concedere a costoro nuove opportunità. Quindi statemi accanto e prestate attenzione a dove mettete i piedi: non vi brucerete e nessun forcone vi infilzerà. La sete non vi darà pace, ok, ma imparerete a conoscere un po’ meglio una delle molte follie umane.

Esempio 1. Vanessa Incontrada, attrice e presentatrice, nel 2019 viene presa di mira sui social per il mutato aspetto fisico, a seguito di una gravidanza. Rughe, aumento di peso e perfino le lentiggini sono un problema per i suoi detrattori, che non le risparmiano epiteti molto sgradevoli, il più edulcorato dei quali la accusa di “essere una balena”. Lei per fortuna risponde in modo molto intelligente, non a parole ma con i fatti, diventando una sorta di portavoce delle donne che rifiutano canoni di bellezza imposti dalla società.  

Esempio 2. Il cantautore Gianluca Grignani si esibisce al Festival di Sanremo mostrando di stare attraversando un periodo non proprio facilissimo: insulti e battute di cattivo gusto invadono il web italico. “Il codice per votare Grignani è: Scotch84”, scrive un utente. “Si mantiene benissimo, come tutte le cose immerse nell’alcol”, gli fa eco un altro spiritosone. E così via. Nessuno che provi a comprendere le vere ragioni di quell’aspetto tanto trasandato.

Esempio 3. Assia Belhadj, ragazza italoalgerina di 26 anni, si candida alle elezioni regionali con la lista «Il Veneto che vogliamo». Colpevole a quanto pare di aver posato in alcune foto con il velo islamico, Assia è in breve tempo vittima di centinaia di insulti, ingiurie e qualche minaccia a sfondo razziale e religioso. Tuttavia la denuncia per diffamazione verso ignoti viene inspiegabilmente archiviata («Non abbiamo Facebook» si legge, tra le altre cose, nella motivazione offerta in tale occasione dalla Procura di Belluno).

Esempio 4. Un gruppo di studenti dell’Istituto tecnico “Dal Cero” di San Bonifacio, Verona, pubblica un cortometraggio con uno studio sul paesaggio incongruo che denuncia la viticoltura industrializzata e le conseguenze che questa provoca a livello ambientale e paesaggistico. Il titolo dice già molto da solo: “Apocalypse Wine”. Molti gli elogi, ma molti di più i commenti sprezzanti dei più “saggi” adulti, negativi, quando non ingiuriosi. “Tranquilli tra una decina di anni il territorio ritornerà tutto bosco in quanto non vedo la fila di giovani che vogliono cimentarsi nei campi”. “Una tesina delle superiori un po’ superficiale (e pure un po’ presuntuosa) che diventa fenomeno social mi spaventa più dell’impianto di un nuovo vigneto”. Pubblicato inizialmente su Youtube, il video viene misteriosamente rimosso dalla piattaforma perché ritenuto “non idoneo”. Anche su questo, gli odiatori non hanno perso certo tempo a pontificare (“Comunque la censura su youtube gli ha dato una pubblicità enorme. Magari se la sono fatta da soli”).

Esempio 5. Nemmeno il professionalissimo Linkedin sembra sottrarsi al fenomeno. Non è raro trovarvi le invettive di taluni che più che a piccoli imprenditori assomigliano ad antichi signori medievali, impegnati come sono nello scaricare le proprie frustrazioni “manageriali” sui giovani. Laddove questi si permettono di criticare il mercato del lavoro, quelli li accusano senza mezzi termini di non voler lavorare (alle discutibili condizioni proposte).

Lo so, fa molto caldo qui sotto, e le vampate a tratti paiono travolgervi, ma fidatevi di me: se continuerete a seguire il filo del discorso non potrà accadervi nulla di male, quanto meno a livello fisico. Non posso dire altrettanto riguardo al vostro stato d’animo, perché è innegabile di come certe storie possano risultare inquietanti e gettare nello sconforto. Ma pure sollecitare qualche curiosità. Ad esempio, quella legata all’identità di questi misteriosi “odiatori”, “denigratori”, banalizzatori seriali. Talvolta non hanno nemmeno un volto, anzi si trincerano dietro un becero anonimato che pare fortificarli radicalizzandone il pensiero. Vedete come in quelle righe appaiono sicuri di sé, forti, pronti a confrontarsi con chiunque, fosse pure il Padreterno, a patto di rimanere nascosti lì dentro, protetti dal velo di un compiacente algoritmo. 

I commenti degli odiatori sono spesso sgrammaticati; qua e là manca un’acca, un accento, ma che importa?! Quel che conta non è la qualità dell’arma, ma che faccia il suo dovere: ferisca e, se possibile, “uccida”.

D’altra parte non è un mistero che stare online deresponsabilizza certuni a livello etico, mentre a livello ontologico li porta addirittura fuori di sé, trasformandoli in una specie di misteriosa entità paraumana che improvvisamente si ritrova libera da ogni responsabilità personale rispetto a quanto potrebbe scrivere.

La cosa sconvolgente è che se potessimo infilarci nel cavo della fibra e surfando sul wifi volassimo dall’altro capo del filo, quel che ci troveremmo di fronte non sarebbe un orribile mostro a sette teste o uno zombie; e nemmeno un serial killer senza scrupoli. A battere i polpastrelli sulla tastiera, sarebbero lì ad attenderci un uomo o una donna probabilmente ordinari, con un lavoro e una famiglia, una certa rispettabilità sociale, padri e madri affettuosissimi, una tranquilla cerchia di amici. Insospettabili, insomma. Il fatto, invero curioso, ci porterebbe subito a interrogarci sulle ragioni della metamorfosi: su come possa cioè una persona apparentemente civile a trasformarsi in un’orrenda e famelica creatura primitiva che si ciba di lapidazioni telematiche.

A ragione, qualcuno potrebbe anche chiedersi dove si andava ad odiare prima dell’avvento delle nuove tecnologie, quando in treno si parlava con chi stava di fronte e seduti sul w.c. si leggevano le etichette dello shampoo anziché formulare insulti su uno smartphone. Nel consorzio degli umani, le malelingue non sono certo una novità. I pettegolezzi, le dicerie, le chiacchiere diffuse ad arte – dalla parrucchiera, sulla piazza della chiesa, ecc. – sono sempre state il risultato di una tentazione molto particolare: quella di sentirsi a posto con se stessi additando i difetti (veri o presunti) del prossimo. 

Poi è arrivato il world wide web amplificando tutto all’inverosimile, concedendo a chiunque la possibilità di esprimere una propria opinione praticamente su tutto, senza dover per forza vantare titoli o competenze. Perché è così: oggigiorno basta una ricerca su Google o la veloce lettura di qualche post per diventare esperti di ogni aspetto dello scibile umano. 

Livore, rabbia, cattiveria, ignoranza si sono riversati lì dentro, nella neonata valvola di sfogo per frustrazioni e infelicità umane. Affermazioni decise, taglienti, per di più immuni al pur minimo esercizio del dubbio, perché – come detto – quello è il luogo in cui tutti sono convinti di sapere tutto.

Nel marzo 2018, parlando ai giornalisti, durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media, l’indimenticato Umberto Eco disse che “i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli”. Una causticità, quella di Eco, che purtroppo negli ultimi quattro anni non ha trovato alcuna possibilità di smentita, anzi. Questa corsa all’insulto e alla denigrazione è diventata proprio il carburante che alimenta ogni santo giorno il motore dei social network che, non dimentichiamolo, si traduce in congrui incassi pubblicitari attraverso un’oscura e permanente profilazione degli utenti. 

Sì, perché l’odio in rete è contagioso, molto più di un virus. E l’unico vaccino efficace parrebbe essere quello di spegnere il pc. L’aumento dei like, le condivisioni, i retweet di ogni farneticazione del nostro hater oltre a provocargli piccole scariche di dopamina lo incoraggiano riguardo la bontà del suo operato. Con il risultato che per lui la Incontrada è “veramente” una balena; Grignani è “veramente” un ubriacone; quegli studenti sono “veramente” degli sciocchi presuntuosi. In più, nel distribuire complimenti a destra e a manca si trovano alleati. Ecco allora le compagnonerie del mondo virtuale che sono solidissime, quanto false. Ma non è su questo che ci interessa discernere ora, quanto sulla veridicità del detto “l’unione fa la forza”. L’odiatore vuole offendere, affermare se stesso, ma cerca anche un minimo consenso. È pronto ad accogliere sodali di ogni età, per sentirsi un poco condottiero, un Brancaleone degli incompresi, un lider maximo della caposseliana accolita dei rancorosi. Così che una volta entrato nella fase del delirio di onnipotenza nulla potrà farlo recedere; nemmeno l’evidenza di essere in torto – magari suffragata da prove addotte dalla controparte – gli farà recitare un mea culpa o, quanto meno, cancellare i propri rigurgiti alfabetici. Da qui alla tendenza ad interpretare ogni evento come un complotto, o parte di un complotto, il passo è davvero breve.

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 Ma l’hate speech non rivolge i propri artigli luridi solo verso esseri con un nome e un cognome, ma anche su una di due tesi contrapposte. Tanto è vero che da quando le discussioni si tengono sui social, anziché nei bar a cui faceva riferimento Eco, abbiamo scoperto la passione per il dibattito. Si tratta di una sua versione moderna però, “degenere” si potrebbe dire, perché non prevede il purché minimo avvicinamento tra le tesi in confronto. 

Il debate (come una bulimica americanizzazione l’ha ribattezzato) ha antiche e nobili origini. Ne “I topici”, Aristotele delineò le caratteristiche delle riunioni dialettiche: uno scambio di domande e risposte tra due oppositori, ciascuno dei quali portava avanti i propri ragionamenti seguendo lo schema premessa-svolgimento-conclusione. Fino a un secolo fa, il “contraddittorio” era una discussione pubblica fra due persone che sostenevano e difendevano opinioni contrarie. Famoso quello del 1909, che in una Birreria di Merano, vide il giovane Benito Mussolini confrontarsi con il 28enne Alcide De Gasperi, allora direttore del quotidiano “Il Trentino”. Era un confronto, appunto. Non era così scontato che i toni si esacerbassero o che si arrivasse addirittura alla rissa verbale, come avviene così spesso in Rete. Il dibattito sul web dunque denota un grosso problema culturale. Qui non abbiamo individui in presenza, ma stringhe di caratteri associate ad un profilo, recante nome e fotografia che peraltro non sono nemmeno garanzia di un’identità certa. Su quel campo di battaglia, ogni analisi è destinata a sfociare in una truce invettiva che mira al depotenziamento e alla ridicolizzazione della controparte

Questo siamo diventati, prendiamone atto. Che si tratti del referendum di Renzi o della diatriba sui vaccini o della guerra in Ucraina siamo sempre lì a scannarci, pestando sulle tastiere dei pc con la bava alla bocca, sovente sotto mentite spoglie. Salvo poi scendere dal ring per riprendere ad indossare i panni del cittadino modello.

Non lasciatevi distrarre dalle urla dei dannati, siamo all’inferno, non dimentichiamolo. Così come non dovremmo dimenticare che quando negli anni Novanta si cominciò a parlare di qualcosa di simile ad un blog o ad un social si sprecarono gli elogi, al punto che gli attuali gironi danteschi vennero predetti più simili a schiere angeliche del paradiso che ad omeriche “porte atre di Pluto”. Eravamo in vista del nuovo millennio e una delle tante promesse che gli anni dell’edonismo ci fecero fu proprio quella riguardante il world wide web. La piazza virtuale sarebbe stata la moderna agorà che, oltre a garantire democraticamente la libertà d’espressione, avrebbe fatto fare al pensiero umano lo step decisivo della sua evoluzione spirituale. Nulla lasciava presagire che anziché sulla spianata della polis ci saremmo ritrovati tra le bestie fameliche del Colosseo.

Certo, resosi conto della degenerazione e dell’odio che improvvisamente aveva preso a divampare, i giganti della tecnologia, diedero a vedere di correre ai ripari attivando, a loro dire, complicatissimi e scrupolosi algoritmi, grazie ai quali i post, le fotografie, qualsiasi cosa venisse “accuratamente” controllata. Argomenti offensivi verso determinate categorie o minoranze venivano effettivamente rimossi. Ma la provata verità è che Facebook, Twitter & Co. – inseguendo finalità tutt’altro che filantropiche – fecero, e fanno tuttora, dello schema binario la propulsione principale dei loro giocattolini a nove zeri. L’aggressione paga, la cooperazione intellettuale no. Ecco perché, immerso in un’opprimente cappa fatta di cattiveria, il nauseabondo cosmo di Internet continua ad espandersi: genera traffico che a sua volta genera lauti guadagni.

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 Si moltiplicano dunque i linciaggi verbali – violenti, minatori, poco rispettosi dell’altro, generanti un clima di ostilità e un ambiente più in generale poco favorevole alle minoranze, di qualsiasi tipo esse siano –, linciaggi a cui giorno dopo giorno siamo costretti ad assistere, che si tratti del post del condòmino o di quello del noto politico. 

Facebook tranquillizza il mondo mascherandosi da poliziotto, ma dov’erano i suoi ligi algoritmi mentre si faceva a pezzi la dignità di Gianluca Grignani? Che tipo di controllo ha effettuato Twitter nel momento in cui Vanessa Incontrada veniva fatta oggetto di uno scandaloso body shaming? E oggi, cosa stanno escogitando gli ingegneri della Silicon Valley per mettere un freno al dilagare dell’odio sociale espresso sulla Rete?Per controllare questa miliardata di potenziali odiatori pronti a distruggere la reputazione di chiunque a qualsiasi ora del giorno e della notte, in ogni angolo del pianeta? Quale soluzione propongono i vari Zuckenberg, Musk e Bezos per impedire che l’umanità involva in una sottospecie di esseri perennemente posizionati davanti ad uno schermo, pronti a scannarsi e a fare virtualmente a pezzi il proprio prossimo?

“Forse questo mondo è l’inferno di un altro pianeta” scrisse una volta Aldous Huxley. Ho quasi paura a scriverlo, ma lo scrivo lo stesso: l’articolo di cui state leggendo le ultime righe, una volta pubblicato, potrà divenire esso stesso preda dell’hater di turno. Non temete! È ampiamente prevedibile. A quel punto, semplicemente, dichiarerò conclusa la visita guidata dell’inferno telematico che ho per voi condotto, esortandovi a risalire immediatamente. Il caldo quaggiù sarà diventato insopportabile. 

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.