L’epidemia del ballo

Pieter Brueghel il Giovane, Il ballo di san Giovanni a Molenbeek (1592). Ricorda l’epidemia del ballo di Strasburgo del 1518, detta anche “Piaga del ballo”

C’è una funivia che ha bisogno di essere fermata per poter eseguire importanti verifiche e quindi riparazioni, ma siccome ciò comporterebbe un mancato guadagno, e probabilmente il fallimento, qualcuno decide di andare avanti lo stesso, in nome di un non meglio precisato “rischio calcolato”. “Tanto cosa vuoi che capiti?”, in un folle processo di autoconvincimento, come riferisce la Procura di Verbania, pare si ripetessero ai vertici della società.

Proprio negli stessi giorni, in Trentino, a causa del maltempo, il Giro d’Italia decide di chiudere per precauzione i passi Pordoi e Fedaia. Aziende e consorzi turistici degli ambiti interessati si stracciano le vesti, ritenendo affrettata la chiusura. Già che siamo in ballo, balliamo, no?! “Tanto cosa vuoi che capiti?”

So che molti lettori non amano il calcio, ma faccio fatica a non inserire in questo contesto la parossistica situazione – soprattutto a livello economico – di quel mondo che è, non dimentichiamolo, affaristico prima che sportivo. Diverse società calcistiche europee viaggiano da tempo sull’orlo del fallimento: questo è noto. Ogni anno che passa i milionari bilanci vengono rammendati grazie a mille trucchi contabili e sotterfugi di ogni sorta. Con il risultato che appare sempre più evidente quanto sia corta la coperta che copre tutti questi problemi. Occorrerebbe un ridimensionamento, a molti livelli, sul treno lanciato a tutta velocità verso non sappiamo dove, qualcuno dovrebbe azionare il freno d’emergenza. Ed invece, quello che sempre più spesso le società fanno di fronte ad un imminente tracollo è l’esatto contrario, ovvero: aumentare la velocità. Ecco allora che qualche mese fa era saltato fuori questo progetto della Superlega: un campionato riservato a pochi club eletti, finanziato con cifre astronomiche quanto inverosimili nientemeno che da JP Morgan, una delle banche d’affari più grosse del pianeta. L’economia drogata, anziché iniziare un percorso di disintossicazione, decide di drogarsi ancora di più, aumentando le dosi.

Ultimo, ma non ultimo, un piccolo esempio trentino saltato alla ribalta delle cronache in queste ultime settimane. Anziché ripensare i flussi turistici, prendendo la sostenibilità e la qualità come indirizzi primari, a emergenza ancora non conclusa si organizza un concerto monstre, con tutta una serie di inquietanti punti interrogativi che aleggiano sull’evento: logistica, costi, effettiva ricaduta.

Quanto siamo lontani da quel che gli antichi greci avevano in testa quando coniarono per primi la parola “oikonomia”, che significava in sostanza “amministrare la casa comune”, dare alla polis le regole per ordinarne la complessità. Oggi la potremmo definire lo strumento per spostare la notte un po’ più in là, procrastinare quanto più a lungo possibile il momento in cui il ballo collettivo dovrà per forza di cose essere interrotto. Perché non si può continuare a ballare per sempre.

“Se pensi che qualcosa in un sistema finito possa crescere all’infinito o sei stupido o sei un economista”. Non ricordo più di chi è questa frase, ma ricordo l’angoscia che mi ha provocato quando l’ho sentita per la prima volta.

Nel 1968 l’imprenditore italiano Aurelio Peccei, lo scienziato scozzese Alexander King, insieme a intellettuali fra cui Elisabeth Mann Borgese, premi Nobel e leader politici fondano il Club di Roma

L’anno scorso da più parti si preconizzava che l’epidemia da coronavirus ci avrebbe cambiati, insegnandoci a modulare meglio la velocità del nostro vivere, aiutandoci a riconoscere meglio e in anticipo il momento in cui è consigliabile rallentare il ritmo o addirittura fermarsi. Dopo diciotto mesi possiamo affermare, con la sicurezza di non sbagliarci poi di tanto, che non è stato affatto così. 

Come ha detto Padre Alex Zanotelli, “la prima ondata del virus – durante la primavera del 2020 – ci ha costretti a sperimentare la fragilità della nostra organizzazione sociale, il modo ingiusto in cui viene redistribuita la ricchezza, ma non abbiamo fatto tesoro degli insegnamenti”. Infatti, subito dopo siamo tornati alla cosiddetta normalità, con la solita ansia da prestazione dell’uomo moderno che contempla frequenti quanto brevissime vacanze all’estero, quotidiani isterici cocktail-party, il tutto condito dal sempiterno, irresistibile desiderio di apparire e di consumare. Il Covid-19 ha rivelato le debolezze del sistema immunitario umano e di un modello di sviluppo malato gravemente.

E che fosse malato non lo si è scoperto certo oggi. Ma quasi cinquant’anni fa. Esattamente nel 1972 quando il Club di Roma discute per la prima volta dell’insostenibilità del sistema capitalistico. Attraverso complicati calcoli, gli esperti arrivano a teorizzarne con una certa precisione perfino una durata teorica, prevedendone il collasso attorno all’anno 2030. Le cause? In primis, dissero, la mancanza di cibo, in quanto la popolazione mondiale avrebbe raggiunto la cifra record di 8 miliardi. (Come vediamo erano stati fin troppo ottimisti, considerato che a quella cifra ci stiamo arrivando con quasi dieci anni di anticipo.) E in più, ai problemi più squisitamente economici si è aggiunta una grana che nel ’72 nessuno temeva: la questione ambientale. Massimizzare il PIL voleva dire massimizzare l’impatto delle attività umane sul territorio, sui mari e sull’aria.

Naturalmente il rapporto del Club di Roma venne snobbato dagli economisti politici, perché ritenuto non credibile. Secondo loro a risolvere i problemi ci avrebbe pensato – in maniera pressocché automatica – il mercato, le politiche sociali e l’innovazione. In una parola: la crescita. Ecco cosa avrebbe tolto le castagne dal fuoco. Ma non si erano fatti i conti con un fattore fondamentale, tra l’altro, per regolare l’equità sociale: l’occupazione. Prima della pandemia, secondo i dati dell’Ocse, la crescita a livello mondiale non aveva mai superato il 2,75%. Il sistema economico, ad un tasso così basso, non è in grado di produrre abbastanza posti di lavoro. Ecco dove il sistema capitalistico avviato dagli Stati Uniti all’indomani della Seconda guerra mondiale, per produrre più beni e servizi dei comunisti semplicemente massimizzando il PIL, ha mostrato tutto i suoi limiti. Ecco l’intoppo che necessita di un’azione. Fermare la funivia? Bloccare la tappa del Giro? Far fallire la società calcistica? Tra il fermare la folla danzante e l’incentivare il ballo (promuovendo l’evento, migliorando l’accompagnamento musicale, ecc.) anche in questo caso è stata scelta la seconda strada. Così come avvenuto in conseguenza della crisi causata dalla diffusione del Covid-19, gli Stati hanno pensato di poter risolvere i problemi semplicemente mettendo più soldi in tasca alle famiglie e alle imprese. Seppure in maniera artificiale, il PIL continua a crescere. Ma l’impressione è che si tratti di un accanimento terapeutico. Il bel giovane muscoloso, autosufficiente, di un tempo ha lasciato così il posto ad una specie di zombie, un golem imponente che però richiede un sacrificio smisurato.

Ma c’è anche chi riesce ad andare oltre questi scenari utopici, attuando una sorta di utopia al contrario, ovvero quella che Zygmunt Bauman definiva “retropia”, l’illusione di poter arrestare le degenerazioni innescate dal temibile binomio globalizzazione e crisi economica, senza modificare di una virgola gli obbiettivi preposti. Nuove migrazioni? Le blocchiamo costruendo muri o affondando gommoni. L’economia si avvita su se stessa? Imponiamo dazi con piglio autarchico e nazionalista.

Il ballo “deve” continuare, questo è un fatto oramai appurato e accettato pressocché all’unanimità. Ma perché?! Non sappiamo come e per quale ragione sia cominciato, ne conosciamo le possibili deleterie derive, eppure sappiamo che non possiamo fermarlo. È irragionevole, sì, folle, ma così trascinante, al punto da persuadere ognuno riguardo una sua indispensabilità. Chi non si allinea e protesta proponendo alternative viene tacciato di “benaltrismo”, la nuova arma letale dei calunniatori di professione. 

E pazienza se il pianeta se ne va a farsi fottere. Tanto Elon Musk e i sodali miliardari della Silicon Valley stanno mettendo a punto i loro razzi spaziali e, qualora non facciano a tempo a costruire le stazioni orbitanti, hanno già approntato un nuovo antiatomico e superprotetto Eden, da qualche parte in Nuova Zelanda. 

Jeff Bezos e il suo razzo, “Blue Origin”

L’importante è che il ballo continui. L’opportunità che il coronavirus ci aveva offerto – purtroppo accanto a lutti e disastri economici – è stata gentilmente respinta al mittente. Potevamo ridisegnare noi stessi, guardarci dentro magari grazie all’arte, ad un uso diverso della tecnologia; potevamo tornare a valori più semplici, prenderci più tempo per fare cose diverse e per pensarne di nuove; potevamo imporci un ritmo di vita meno frenetico e distratto e quindi arrivare a pandemia terminata rinnovati spiritualmente, guardando in un modo tutto nuovo al futuro che a quel punto ci si sarebbe prospettato innanzi. Con una maggiore consapevolezza. Ma così non è stato. Spesso ci si è atteggiati come i cittadini americani di cui scriveva John Steinbeck: “Il socialismo qui non ha mai attecchito perché i poveri non si considerano proletariato sfruttato, ma milionari in temporanea difficoltà”. Parole santissime.

Il ballo è ripreso con più intensità e con più partecipanti di prima. Sapete una cosa? Mi ricorda molto quel che è recentemente avvenuto sul Lago di Mezzano a Viterbo, con quel rave party di Ferragosto che pareva non finire mai, ma soprattutto gli incredibili fatti di Strasburgo del 14 luglio del 1518.

L’incisione ritrae tre donne colpite dalla “piaga del ballo”. Opera basata su disegno originale di Pieter Brueghel, che presumibilmente fu testimone di un successivo “focolaio” nel 1518 nelle Fiandre

Tutto cominciò quando una giovane donna, di nome Troffea fu vista compiere strani movimenti per le strade della città alsaziana. Le sue erano curiose movenze, torsioni e giravolte scoordinate e asincrone ma i cittadini le scambiarono da subito per passi di danza. Il suo “ballo”, intervallato da una serie di svenimenti, si protrasse per un’intera settimana. Non si sa come, né naturalmente il perché, a lei si unì un’altra donna, quindi due ragazzi, e così via via altri, fino a che il gruppo danzante raggiunse lo spaventoso numero di cento unità. Si possono immaginare le condizioni fisiche di costoro, bagnati di sudore sotto il sole di luglio, con i piedi nudi feriti.

A questo punto, naturalmente, le autorità cittadine si allarmarono, anche perché il caos cominciava a farla da padrone per le vie di Strasburgo. Si consultarono dei medici e dei fattucchieri (all’epoca non c’erano molte differenze tra le due professioni), i quali consigliarono di assecondare i ballerini, perché in pochi giorni il curioso fenomeno si sarebbe esaurito. In comune presero alla lettera il consiglio, allestendo un palco di legno sopra al quale la gente poteva ballare più comodamente. Addirittura, furono pagati musicisti e ballerini esperti per dare ritmo e coreografia ai danzatori. Il risultato fu che alla fine di agosto il ballo non solo non si era esaurito, ma aveva quadruplicato il numero delle persone coinvolte, che adesso sfiorava la cifra di cinquecento. Tra l’altro, osservandoli bene, sui visi dei partecipanti non vi era nessun segno di divertimento o di gioia. Una sorta di rave ante litteram, senza di mezzo droghe né musica techno? Un rito dionisiaco attraverso il quale si intendeva esprimere il rifiuto del sistema di valori della società? Fatto sta che furono registrati diversi decessi: la danza era sempre più frenetica e i soggetti più deboli, sfiniti dallo sforzo fisico e dalla fame cominciarono a morire sul posto.

A questo punto – si era oramai all’inizio di settembre – le autorità decisero di intervenire, questa volta in maniera drastica, inviando soldati. Una stranezza simile non poteva essere che opera del Demonio o del Padreterno stesso. Si interpellarono gli ecclesiastici, i quali consigliarono di far indossare alle centinaia di invasati delle scarpe di color rosso, quindi di dirottarli verso la vicina grotta del santuario di San Vito, onde poter compiere un mastodontico esorcismo collettivo. (Nella zona vi era la credenza che San Vito, oggi santo patrono dei danzatori e degli epilettici, punisse i peccatori costringendoli a danzare senza sosta.) Le fonti non riportano cosa accadde a questo punto, ma solo che – non si sa quanto grazie a San Vito, a qualche oscura divinità ctonia o alla mera stanchezza – i danzanti vennero ricoverati e l’epidemia del ballo si poté finalmente considerare conclusa.

Impressionante, non c’è che dire. Ancora più impressionante se pensiamo che, quanto pare, nessuna delle persone coinvolte “voleva” effettivamente ballare, eppure era lì a contorcersi notte e giorno, pronta a lasciarsi morire di fame e di sfinimento. Tra l’altro, quello del 1518 non fu l’unico caso. Si è a conoscenza di almeno altre dieci situazioni simili; in particolare, una nel 1374 coinvolse molte città dell’attuale Belgio, della Francia nordorientale e del Lussemburgo. Ma già nel 1020, a Bernburg, un gruppo di uomini iniziò a ballare freneticamente e senza riuscire a fermarsi, circondando una chiesa e disturbando così la messa della Viglia di Natale; nel 1237, un gruppo di bambini si diresse danzando da una città all’altra – episodio che diede origine alla leggenda del Pifferaio Magico. Circa cinquant’anni dopo, duecento persone iniziarono a ballare sul ponte di un fiume, fino a quando questo non crollò; altri episodi di questa strana epidemia si verificarono in numerosi luoghi nei secoli successivi, fino all’ultima piaga del ballo, di cui vi abbiamo poc’anzi riferito.

Isteria collettiva? O forse quella segale allucinogena, di cui qualcuno vociferava? O qualcosa di più misterioso e insondabile aveva agito in questo evento che ricorda così tanto le visioni infernali di Hieronymus Bosch o il quadro con cui Pieter Brueghel il Vecchio, parrà voler ricordare l’evento nel suo “Banchetto nuziale”, mezzo secolo dopo. O ancora la fiaba che Hans Christian Andersen pubblicò a Copenhagen nel 1845, intitolata “Scarpette Rosse”? (Era la storia di una bambina capricciosa, frivola e poco devota, che viene punita per il suo carattere quando, indossate un paio di scarpe rosse da ballo, è costretta per magia a danzare senza sosta per tutta la Terra.)

A cosa era dovuto tutto ciò? Una colossale dissociazione collettiva alla quale oggi, nella modernità ipertecnologica che stiamo vivendo, nonostante l’alterazione che la diffusione del coronavirus ha apportato agli stili di vita di ogni ceto, siamo certi di poter scampare. Ma il passo dall’epidemia del ballo al ballo dell’epidemia è davvero breve. Un microscopico virus ha provato a mettere l’umanità davanti uno specchio, affinché potesse osservarsi meglio, così impegnata nella scoordinata danza, sempre più concitata, a cui ha deciso di prendere parte. Ma nonostante ciò, ignorando i sintomi da affaticamento, le lesioni, i sanguinamenti, ignorando le urla di chi da più parti implora di rallentare, o di fermarsi, l’umanità – dopo un breve periodo di sorpresa, incoraggiata dalla discesa dei numeri del contagio – ha ripreso il ballo. La pandemia ha messo a nudo i limiti dell’economia di mercato basata sulla crescita e drogata da sussidi indiscriminati, l’inadeguatezza di un intero sistema che tra l’altro mette i consumi davanti alle vite umane.

Le trasformazioni profonde necessarie per mettere una volta per tutte assieme ragioni economiche, ambientali e sociali; che in una parola indirizzino verso una forma di equità universale, sono ancora molto di là da venire. Nessun cambio di mentalità all’orizzonte, nessun approccio olistico in vista. L’agenda 2030 appare una sterminata e sconsolante distesa oceanica senza approdi sicuri nelle vicinanze.

Come Frau Troffea, sanguinante e sfinita, continua la danza della società. Quando è arrivato il Covid-19 ci si augurava di tornare ad “essere come prima”, eppure le principali cause – dirette e indirette – di quella pandemia derivavano proprio dal quel “mondo di prima”. Per questo, non appena il lockdown o il green pass lo hanno permesso, si è tornati a “ballare” più forte, senza allegria né giudizio, liberi, senza nemmeno più un’autorità che possa permettersi di portare tutti davanti ad una statua di San Vito al fine di rinsavire. Per poter, cioè, tornare a se stessi. E smetterla una buona volta di ballare tanto stupidamente. La musica è stonata e il cielo sembra promettere di nuovo tempesta.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.