Mondo, anno zero

Inverno 1994. Ricordo una fila di automobili. Lunga, variopinta, ininterrotta. La valle era quella di Fassa, mi pare, la strada era la sola che è possibile percorrere per raggiungere le diverse località di villeggiatura. Non ero mai stato sulla neve. Per un pugliese stare su quel manto bianco, almeno in quegli anni, non era tanto frequente, e pareva strano, come calpestare il suolo polveroso di un pianeta sconosciuto. Ed era magnifica la vista delle piste, delle vette candide, dei boschi in cui il verde occhieggiava e provava a battersi contro la dittatura della neve. Insomma, mi godevo il paesaggio. Poi però mi voltavo di nuovo verso la strada e tornavo a osservare la fila di automobili. C’era qualcosa di stonato in tutto ciò, qualcosa che intuivo, ma a cui non riuscivo ancora a dare una forma né tanto meno una spiegazione. Il profumo dei pini da una parte, quello dei gas di scarico dall’altra. Di qua la bellezza della natura, di là la corruzione della civiltà. La sproporzione. Ecco cosa c’era ad inquietarmi. La sproporzione tra la domanda e l’offerta.

A quale scopo era stata creata quella Natura? Agli occhi dei viaggiatori inglesi del Settecento si erano rivelate orribili, per noi contemporanei erano bellissime. Dunque a che pro Dio, il Fato, il Big Bang avevano formato quelle montagne, recettori di una delle tre esigenze primarie dell’essere umano: la bellezza? (Perché dopo verità e giustizia, è di questo che ci nutriamo, della bellezza che commuove e che appaga la sete d’infinito di ognuno.) L’offerta turistica, un pilastro dell’economia italica, che come materia prima usa il territorio, era votata alla crescita. Il ricco governo provinciale era d’accordo, per questo sovvenzionava, incentivava, spingeva gli imprenditori ad investire sempre di più. Lo stato di benessere della comunità non era più calcolato sulla qualità della vita, ma sul numero degli arrivi, sui posti letto venduti, sugli appartamenti affittati, sulle voci di fatturato. E ci si aspettava di fare meglio l’anno dopo. E l’anno seguente ancora di più. È evidente che qualcosa non andava in quest’ingranaggio. Per il semplice fatto che la domanda cresceva, ma l’offerta rimaneva la stessa. Magari cambiava forma, si arricchiva di proposte collaterali, di “benefit” che però – loro malgrado – andavano a snaturare l’offerta stessa, ad alterarla, a sfigurarla in alcuni casi. Ma i turisti arrivavano a frotte e quindi perché cambiare? E perché non farne venire sempre di più?

Ogni tanto qualcuno sollevava dubbi sulla sostenibilità di questo sistema. Nel 2017, Lorenzo Delladio, illuminato proprietario de “La Sportiva” – leader mondiale della calzatura sportiva – fece anche una prima proposta concreta: smantellare gli obsoleti impianti sciistici attorno a Passo Rolle e progettare un altro tipo di offerta, in cui la natura fosse più vissuta e sperimentata dal turista, anziché fare solo da scenario da tagliare velocemente in due con un paio di sci. Inutile dire che la proposta suscitò l’opposizione degli operatori del territorio, che si coalizzarono per acquistare gli impianti e mantenerli in vita.

Poi è arrivata la Pandemia e con essa la chiusura degli impianti e l’idea di Delladio è ricomparsa, come il fantasma del padre di Amleto, a rammentare che forse non era così balzana come qualcuno aveva voluto far credere. E la Natura stessa è parsa prendersi gioco della situazione, regalando una delle nevicate più intense degli ultimi cento anni. Negli anni passati ci si era dovuti affidare ai cannoni per soddisfare le migliaia di turisti accorse, sparando neve artificiale e quindi consumando quantità impensabili di acqua; nella stagione 2020-2021 del nostro scontento nemmeno un turista  ha potuto “godere” di tutto quel ben di dio. È il colmo, no? È come se la Natura avesse voluto riprendere i propri spazi, e lo avesse fatto utilizzando l’unica freccia a disposizione nella propria faretra: un virus.

Comprendo il grido d’allarme degli impiantisti e dei lavoratori dell’indotto. Il danno economico è terribile, senza precedenti. Tuttavia comprendo anche quanto sia urgente aprire da subito una riflessione sul futuro di questa e di altre professioni. Il vaccino risolverà il problema di “questo” virus, ma tutto lascia supporre che emergenze pandemiche simili sono destinate a ripetersi frequentemente anche nei prossimi anni.

La grande nevicata degli anni Venti non è stato l’unico segnale del risveglio di Madre Terra in zona (un risveglio che potrebbe in futuro rivelarsi molto pericoloso per noi umani). Il 15 dicembre una slavina si è staccata dal versante trentino della Marmolada, fra punta Rocca e punta Penia, distruggendo il rifugio di Pian dei Fiacconi e un impianto sciistico sopra passo Fedaia. Venti giorni dopo, il 5 gennaio, circa tremila metri cubi di roccia si sono abbattuti sull’Hotel Eberle, sulla collina di Santa Maddalena, alle porte di Bolzano. Ambedue le strutture erano naturalmente vuote a causa delle restrizioni Covid, ma potevano essere due tragedie immani (do you remember, Rigopiano?). Viene la pelle d’oca pensando allo scenario davanti al quale avremmo potuto trovarci, anche ripensando alle immagini delle vette superaffollate durante la scorsa estate, quando ci eravamo illusi che la pandemia fosse solo un brutto sogno e nulla più.

Pericolo scampato, dunque. Viene quasi da festeggiare. (E si prova una sorta di tenerezza nell’immaginare questa “volontà superiore” che, intenzionata a inviarci un’importante notifica, mediante catastrofici eventi, si sia prima premurata di mettere in sicurezza il luogo della rivelazione.)

A che scopo è stata dunque creata la Natura? Perché succedono queste cose? Scientificamente è fin troppo facile immaginarlo. Perfino le piastrelle del terrazzino di casa mia traballano dopo la neve e il ghiaccio delle scorse settimane. Figuriamoci le Dolomiti.

Ciò che ha dato la Natura se lo riprende. In un certo senso è proprio così. La convivenza con l’uomo funziona fino a che l’uomo stesso dimostra di rispettarne alcune semplici regole fondamentali. Quali sono queste regole? La risposta, in una sola parola, banale, sovraesposta eppure sempre così efficace: “sostenibilità”. Cosa significa? Difficile dirlo in poche parole. Proviamoci lo stesso. Concerti in alta quota, nouvelle cuisine nelle malghe di alta montagna, aperitivi sulle ferrate, escursioni in fuoristrada sui sentieri, impianti sciistici a quote improponibili; ancora, stravolgere la tipicità dei prodotti e la storia di un territorio a vantaggio di un afflusso crescente di turisti, strategie di promozione turistica impostate sul breve termine, una politica votata all’assistenzialismo indiscriminato, una politica che non mette in conto un necessario cambio di rotta nella gestione dell’economia turistica dei prossimi decenni. Sono solo alcuni esempi di quello che sicuramente “non” significa sostenibilità.

L’incredibile coda di alpinisti in cima all’Everest, il “tetto del mondo”
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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.