Romedio, l’eremita che domò l’orso

Hanno iniziato i bavaresi nel 2006: Bruno, l’orso vagabondo, all’anagrafe JJ1, viene abbattuto presso il lago Spitzing. I cugini sudtirolesi gli hanno sempre odiati: i loro masi sono isolati, non è facile convivere con un bestione fuori casa, sebbene la storia dimostri essere innocuo. Nel 2013 ci pensarono gli svizzeri del Canton Grigioni ad abbattere, senza batter ciglio, M 13. Sempre loro, abituati a non muoversi senza un referendum, stanno pensando di indirne uno sulla possibilità di abbattere ogni orso che scavalchi il confine. Poi ci sono le liti familiari: i valligiani trentini hanno assunto una mentalità urbana (cementificare, svendere la propria terra, utilizzare l’orso fin che fa cassetta, ecc.), mentre gli urbani inneggiano ad una terra e a dei valori che sono diventati assai rari. Compito quest’ultimo, un tempo, di chi lavorava la terra e di chi, su questa terra, ci ricavava il pane quotidiano.

Qualcuno potrebbe dire che siamo piombati nell’era del Kali Yuga, l’induista della quarta età, quella del “punteggio perdente” ovvero del caos prima del tracollo finale. D’altronde lo avevano già previsto gli aedi nordici prefigurando, nella saga del Ragnarök, la fine degli dèi e del mondo. È vero, la torre di Babele esiste, le parole sono diventate vani aliti in balìa delle correnti fredde di Borea. Il re Eolo, il dio dei Venti, se lo è fatto fuggire dalla grotta dov’era incatenato assieme a Euro, Zefiro e Noto.

Sanctuary of San Romedio dedicated to Saint Romedius situated on a steep rocky spur in the natural scenery of the Val di Non, Trentino, Italy

Ma, come nelle vecchie storie orali raccontate dagli anziani al tepore della stalla, c’era un tempo in cui il mondo era diverso. Seppur selvagge, popolate da esseri sovrannaturali, dove rocce maestose dal profilo bizzarro finiscono per incarnare antiche eroine e grandi ossa fossili vengono identificate con le spoglie di leggendari giganti, le gane/anguane si bagnavano negli specchi d’acqua e il Wilden Mann, l’uomo selvaggio, si aggirava per montagne alpine, il passato riserva ancor oggi delle sorprese. Semplicemente perché non era esente, nonostante il sangue che scorreva a fiumi, di valori individuali e sociali tenacemente trattenuti con i denti e gli steccati dalle genti alpine. La montagna, tra dèi, mostri, animali, pastori, cacciatori e homeni selvadeghi, era sacra.

Così poteva capitare di vedere uomini esemplari, i santi (eremiti, a metà strada tra sciamanesimo e follia d’amore per Dio) girovagare per le terre alpine accompagnati, aiutati, scortati, dagli orsi. C’era san Valentino della Rezia, sì, proprio lui, quello seppellito nel castello di Zenoburg a Merano. Quindi il monaco e vescovo san Corbiniano, quello che andò a Roma da Frisinga a cavalcioni dell’orso che aveva avuto il coraggio di sbranargli il cavallo. Per non dimenticare, tra storia e leggenda, San Lucano (o Lugano), il santo delle Dolomiti, il cristianizzatore della val di Fiemme e dell’alto Bellunese, anche lui intento a calvacar quell’orso. E solo parlando dei santi delle nostre terre, senza andar a scomodare il celtico san Colombano o il suo discepolo san Gallo, fondatori di monasteri.

Ma, su tutti questi, primeggia san Romedio, il santo del Tirolo, il cavaliere figlio di un Herrensalz, Signore del Sale di Thaur, presso Innsbruck, l’eremita che ricalcò le orme di centinaia di uomini che, prima di san Francesco, abbandonarono tutto per ritirarsi in luoghi selvaggi in contemplazione del Divino. Da buon anticipatore del Tirolo ben sapeva che l’orso, un tempo sacro ad Artemide, in queste terre al di qua e al di là delle Alpi, era stato posto sotto la protezione della Vergine. Romedio, soggiogando l’orso, debella metaforicamente il selvaggio, le paure notturne: nelle società antiche, infatti, l’orso era un animale legato alla luna, considerata creatura luminosa, di una luce fredda e notturna. D’altra parte il rapporto eremita-animale dimostra che in realtà questi uomini non erano mai soli. Loro, con la natura, dialogavano, sapevano interpretarne i segni, comprendevano i messaggi di buono o cattivo augurio. Comunque il prestigio di Romedio derivò da un lato dalla vittoria contro i demoni e dall’altra, proprio dalla capacità di dominare le bestie feroci. L’eremita che doma l’orso costituì l’immagine archetipica del santo più forte della bestia più forte, che riesce a farsi obbedire e qualche volta aiutare dalla belva non con la forza fisica o delle armi, bensì con quella della parola.

Era il tempo in cui l’orso primeggiava, nonostante la dura opposizione della chiesa, nelle sagre popolari, nell’araldica: zampe artigliate o sue immagini si possono ancor vedere scolpite nelle pietre tombali del chiostro di Bressanone, sulle pareti della parrocchiale di Vipiteno, sulle facciate dei castelli della valle dell’Inn. Con la parola (talvolta con la musica o la danza) si placavano le ire degli dèi, dei santi e degli animali. Mai con la violenza. Il modello perfetto della vita cristiana era proprio lui, il santo come Romedio, l’uomo esemplare, l’uomo di Dio (vir Dei).

Un pellegrinaggio tra cappelle e chiese di montagna

La strada che Romedio percorse, assieme ai suoi discepoli-servitori Abramo e David, da Thaur a Trento e, dopo l’intermezzo del pellegrinaggio a Roma, fino all’orrida gola della val di Non dove si stabilì, divenne una delle più importanti Vie Sacre del Tirolo storico. Da Sankt Georgenberg, il selvaggio e scenografico santuario della Inntal, alter ego di quello noneso, dove Romedio si inginocchiò al cospetto dell’effige della Madonna e di san Giorgio prendendo la fatidica decisione di abbandonare fama e ricchezza per farsi eremita, fino all’Anaunia, la strada percorsa attraverso la terra in montanis è il frutto di una millenaria stratificazione di storie, leggende, idee, visioni, speranze, sogni, di morte e di rinascita. Quando Romedio uscì dal portale del suo castello di Thaur, di cui rimangono oggi soltanto alcune mura, fermandosi a pregare nella sottostante chiesa di san Vigilio – Thaur faceva parte della diocesi di Bressanone ma l’elezione dei parroci spettava alla curia tridentina, com’è piccolo il mondo – non sapeva di compiere un pellegrinaggio-ricerca che lo avrebbe posto, per la devozione popolare, all’interno di un mondo leggendario. Un mondo fatto di piste preistoriche e di vie imperiali, strade del sale, del ferro, del pane, del vino, ecc. Di villaggi alpini nati in territori liminari, ai confini tra terra, acqua e cielo, luoghi di passaggio di eserciti, vagabondi, pellegrini, cavalieri, straccioni, e luoghi di transito per streghe, stregoni, orchi, diavoli e angeli scomunicati. 

Attraversare le montagne, percorrere le valli, per Romedio è prima di tutto una prova morale, un pellegrinaggio attraverso emozioni e valori, una tappa verso il regno di Dio, un cammino dall’inferno al cielo perché la montagna, con i suoi paesaggi così contrastanti e la sua drammatica verticalità, è il luogo d’elezione di questa cosmogonia mitica e infera. Con sullo sfondo il desiderio fantastico, caro a quei secoli, di un monde bestorné, di un mondo alla rovescia, dove i poveri sono ricchi, gli animali parlano con gli uomini, i santi scendono dal cielo per aiutare la gente.

Sulla vita di Romedio si son fatte innumerevoli congetture. Che sia vissuto ai tempi del vescovo missionario Vigilio e dei martiri anauniensi, Sisinio, Martirio e Alessandro, si è rivelato un mito ben orchestrato nel corso dei secoli XII-XIII, durante la ri-cristianizzazione delle Alpi. Qualcuno ipotizza che sia soltanto il frutto di sovrapposizioni e contaminazioni di svariate figure e storie agiografiche. In realtà, come sostiene la storiografia contemporanea, soprattutto quella tedesca, la sua nascita risale all’XI secolo: Romedio si trova in compagnia di un popolo atterrito, pellegrino in una terra che è ritornata ad assomigliare a quella dell’epoca preromana. Il suo viaggio è un pellegrinaggio tra cappelle e chiese sparse sulle montagne, con i loro campanili che sfidano le tempeste e orientano le anime perse nella bufera o nel peccato verso la sicurezza della pietra sacra. Preghiere e gesti, guarigioni e ossessioni, concorrono a calmare la collera divina che, quotidianamente, si abbatte sui villaggi, sulle persone e sugli animali.

Romedio: tutte le storie e le leggende ci portano a quel tempo carico di umori, timori e speranze. Lì dove fate, draghi, orchi e altri esseri meravigliosi affollano la fantasia popolare e danno corpo a sogni di rivalsa in un mondo rovesciato: la foresta, la forra, la rupe dell’eremo in quel lembo d’Anaunia non sono solo il luogo del rifugio, del ritiro e del rifiuto di un mondo mondano. Sono il luogo dove la natura è parte integrante della cultura, dove l’orso è mansueto ed è un ottimo compagno di viaggio.

A Thaur l’intero paese è cosparso di  affreschi riguardanti San Romedio

Il santuario

Da poco è finito il restauro che ha rinnovato completamente alcune cappelle del santuario. Migliaia di fedeli, pellegrini e viaggiatori calpestano da secoli le diverse vie che vi conducono. Quassù, il 7 luglio 1809, vi salì pure Andreas Hofer, poco prima della battaglia del Berg Isel. Per questo, ogni 7 luglio, le compagnie degli Schützen e delle neonate Marketenderinnen, ripetono il pellegrinaggio affinché non ci si dimentichi. In questo luogo, assai appartato, rustico e selvaggio, la natura lascia ancor oggi un’impronta indelebile. L’uomo, con le sue costruzioni innalzate a cascata, dall’alto verso il basso, ha soltanto lasciato una labile traccia in termini di fisicità. Una traccia potente, se pensiamo invece all’aspetto simbolico. San Romedio è soprattutto l’esempio di un mondo dove, tra violenze, carestie e pestilenze, si fece comunque strada una cultura della pace, dell’amore, dell’uguaglianza e di un rapporto armonico tra le cose della terra e del cielo. E forse non è un caso che da secoli sono i padri Francescani a gestire il santuario.

Per ogni approfondimento si rimanda al libro “San Romedio. Una via sacra attraverso il Tirolo storico”, Edizioni Curcu Genovese, 2015

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com