I giorni successivi all’attentato in Israele, leggendo le prime pagine dei quotidiani, ho avuto subito una brutta impressione, che si è poi tramutata in una domanda, o in una triste premonizione: sta per scoppiare la guerra mondiale? Me lo sono domandato non per i fatti avvenuti, pur gravi, ma per il modo in cui venivano trattati dalla nostra stampa, con toni eccessivamente emotivi, approssimativi e di parte, come a voler preparare l’opinione pubblica a una eventuale reazione occidentale.
Si obietterà: come si può non condannare questi attentati con fermezza, e non essere quindi di parte? Bene, ci sono differenze: un conto è la condanna di una violenza spietata contro dei civili, un altro è l’accanimento nel voler presentare come giustificato qualsiasi atto di Israele, presentandolo come vittima da sempre innocente e volutamente ignorando il contesto generale e la storia del territorio. La stampa italiana si conferma simile a una stampa da regime, soprattutto quando è il momento di confrontarsi con opinioni diverse da quelle dominanti nel mondo NATO.
Ho notato in particolare alcuni espedienti comuni, già utilizzati per il conflitto ucraino.
Primo espediente, forse il più osceno: bollare come “frasi shock” opinioni non allineate, magari neanche davvero opposte a quelle dominanti ma semplicemente più approfondite degli slogan da regime. Nei giorni dopo l’attentato, se qualcuno provava ad allargare l’obiettivo e quindi a far ragionare sulle responsabilità israeliane, poteva vedere le proprie affermazioni bollate come “shock”, e non come tentativi di spiegazione della realtà geopolitica. Si rischiano subito, come per l’Ucraina, liste di proscrizione di intellettuali definiti dai giornali come“pro-Hamas” quando non lo sono affatto. Un altro espediente tipico è l’insistere con paragoni fuori luogo; è iniziata già dal giorno dopo l’attentato la gara al rialzo: Hamas è come ISIS al Bataclan, Hamas è come i nazisti, eccetera. È importante per la stampa semplicista definire bene i ruoli, in modo da farli raggiungere una polarità da film Marvel: da una parte noi, i buoni, dall’altra i mostri. Se questa idealizzazione, quando si parlava di Putin, non era così lontana dalla realtà, nel caso della Terrasanta è a dir poco inopportuna, visto che l’aggressore, per lo meno per gli ultimi accordi, è Israele (lo dice l’ONU e la maggior parte degli storici, non io).
Un ultimo punto, il più pericoloso, si manifesta in questi giorni in una frase ricorrente: “ma tu preferiresti vivere in Israele o a Gaza, in USA o in Iran?”. Ecco la semplificazione: dato che noi occidentali siamo i buoni, non ci può essere scelta; nella guerra contro il male dobbiamo stare dalla parte di Israele, perché loro sono come noi, e dobbiamo perciò sostenerli sempre, altrimenti vinceranno “gli altri”.
In nome della difesa dei nostri valori (tra i quali la libertà dovrebbe essere in prima fila, però) si può quindi arrivare a sostenere qualcuno dei “nostri” quando invade un paese “inferiore”, o quando bombarda civili “per difendersi”. Quando si insinua questa elegante forma di razzismo di solito non tira una bella aria, perché si stanno definendo bene le squadre prima della partita.