Perché lo schermo di uno smartphone impedisce di vedere il tutto

Io non sono un fotografo. Ho sempre fatto foto bruttine perché ho imparato tardi che gli occhi e gli obiettivi delle fotocamere non sono la stessa cosa. Solo i sensi umani colgono la profondità nel campo largo, le macchine no. Neanche le telecamere. Quando si confina l’esperienza dentro il perimetro di uno schermo, tutto ciò che resta fuori è come se svanisse. Tante cose sono sparite negli ultimi trent’anni in cui la Storia dell’Italia è fatta dalla sua TV. E ancora di più da quando la tecnologia informatica è riuscita a mettere ciascuno davanti alla sua propria televisione personale. Tutto possiamo prestare, la macchina, i vestiti, la casa, persino le persone; ma non il cellulare. Ma perché? Non sempre abbiamo segreti da celare. E però quello è il nostro privatissimo cordone ombelicale con il mondo attraverso il quale conosciamo tutto ma riusciamo anche a difenderci e nasconderci senza che nessuno ci veda. Così funziona. E lo scopo è forse proprio questo: farci vedere tutto ma senza consentire mai una visione di insieme, senza la profondità del campo largo. Quando si mette a fuoco in particolare, ciò che sta intorno sfuma. Se si propone una carrellata continua di particolari tutto perde consistenza.

Con gli smartphone la nuova società ci sta facendo passare tutti attraverso uno schermo. Guerra e pace, ricchezza e povertà, bontà e cattiveria, menzogna e verità: tutto questo sta al mondo, ma il mondo non si sta dirigendo verso niente, non fa nessuna scelta. O se la fa, è schermata, non si vede.

Schermo, Screen, Écran, Schirm; la radice è la stessa: è una barriera, un qualche cosa che ti impedisce di vedere il tutto. E paradossalmente è fatta di particolari che vengono evidenziati, potenziati, messi in primo piano, esasperati. Ogni cosa viene vista meglio e con molta maggiore precisione, ma si perde la profondità del campo largo. Abbiamo perso gli occhi. Qualcuno lo ha voluto? Non lo so, forse nessuno.

Forse la realtà è ormai così complessa che nessuno la regolamenta più. Ci sono tendenze, gruppi di pressione, interessi potenti. Ma indirizzati a cosa?

Fino a 30 anni fa sarebbe stato illuminante scoprire che tre soli fondi di investimento americani gestiscono un patrimonio di ben venti trilioni di dollari, pari a un quinto del PIL mondiale, e hanno partecipazioni in tutte le banche e le grandi aziende del Pianeta. Eccoli, avremmo detto, i veri padroni del mondo, quelli che decidono tutto. Eccoli chi? I loro amministratori? I loro proprietari?

Ma quante realtà e quante relazioni implicano gestioni così incredibilmente enormi? Chi le può conoscere e controllare? Come fanno a prendere delle decisioni? Quale cervello umano potrebbe tener conto delle conseguenze di utilizzare in un modo piuttosto che in un altro anche solo parti significative di una tale enorme quantità di risorse finanziarie? Forse nessuno. Forse è già un’enorme ruota che gira da sé e non si può fermare e nemmeno governare, come una catena in cui ogni elemento tira l’altro, e ogni momento è causa e motore di quello successivo. Perché il futuro non lo conosce nessuno. Neanche le macchine che già probabilmente decidono momento per momento come reagire o fare reagire agli stimoli del presente. E sono predeterminate e programmate da qualcuno che ne sa meno di loro.

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Pubblicato da Stefano Pantezzi

È nato a Rovereto nel 1956 e cresciuto a Trento, vive a Pergine Valsugana. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Bologna, è avvocato da una vita. Ha pubblicato la raccolta di poesie “Come una nave d’acqua” (2018) e alcuni racconti in antologie locali. “Siamo inciampati nel vento” (Edizioni del Faro) è il suo primo romanzo.