Ogni tanto, per pura curiosità, mi diverto a scorrere i cataloghi di mostre viste in passato, aprendoli lì dove decine e decine di volte lo sguardo si è soffermato, vorace, indagatore. Si potrebbe anche gettare il libro per terra che, inevitabilmente, si aprirebbe a quella pagina, ormai segnata dalle ditate e dai delicati segni lasciati dall’indice che ne ripercorre linee e trame dell’immagine. Tra i tanti cataloghi ce n’è uno in particolare, quello che il Mart dedicò, nel lontano 2006, a Franz von Stuck (Tettenweis, 1863-Monaco, 1928), maestro eccelso e simbolista, capostipite dei secessionisti monacensi. La pagina incriminata è quella che riporta la fotografia dell’opera Scherzo (1909), ora al Museo Civico di Trieste. È un inno, gioioso ad un Pan conteso: il dio struscia il proprio membro sulla candida pelle di una affascinante, infuocata, sorridente, compiacente e nuda valchiria mentre un’altra donna, dai capelli corvini, gelosa e ingorda del piacere che il dio dedica ad un’altra, con le dita ad uncino rattrappite sul pelo, cerca di inserirsi nel gioco. È l’inizio di un viaggio nel mondo del piacere, di arcadica memoria. Ma anche un viaggio nel mondo degli inferi che corrisponde, come tutti i viaggi, ad una liberazione.
Molti anni prima che Sigmund Freud decidesse di scambiare l’ossessione romantica per nevrosi e prima che la psichiatria decidesse che l’odore animalesco di Pan/Lucifero fosse infetto e socialmente riprovevole, von Stuck dipinge un mondo senza tranelli e senza inganni, senza illusioni e senza censura. I personaggi che appaiono nelle sue opere non si mimetizzano, semplicemente irrompono nel mondo. E, ad esempio, Pan non lo fa nel calore del meriggio, quando l’aria è tremula e le palpebre dei pastori sono assonnate. Lo fa di sera, di notte, quando si aggirano i fantasmi e i sogni diventano realtà o incubi e i desideri si infrangono tra sguardi trasognati e il basso ventre fremente. Con fragore sonoro i personaggi “panici” compiono incursioni saettanti, sostenuti soltanto dalla frenesia e dal desiderio, con l’obiettivo di catturare una preda che risulterà irraggiungibile – come il maledetto Beep Beep rincorso da Willy il Coyote –, come fu Siringa per Pan. Sembra quasi che l’artista inneggi ad un mondo antico che ha ritrovato la strada per irrompere nel quotidiano, un mondo che però si avvia verso la sua scomparsa, trasformandosi lentamente ma inesorabilmente in patologia. L’animalità mitologica che ignora i limiti e i confini, regole e valori: ecco ciò che dipinge il nostro pittore d’oltralpe, con grande maestria e magia coinvolgente. Questi personaggi non si scordano, non si mimetizzano, non sono ancora relegati e condannati nelle zone ombrose dell’inconscio e della psicopatologia. Sono freschi, frizzanti, ironici, divertenti, vogliosi, gioiosi, goderecci. Pan/Lucifero è il principio cosmico, generatore di sperma e di sangue, di vita transitando per la morte. Gli innovatori dell’arte a cavallo del secolo questo “sprofondare” nel magmatico mondo ferino degli dèi, semidei, menadi, satiri, lo comprendono molto bene e la Biennale di Venezia del 1909 gli dedica una grande esposizione in laguna. Perché a lui e alle sue opere – Medusa, Peccato, Oreste e le Erinni, ecc. – hanno guardato, innamorandosi, artisti come Kandinskij, Giorgio De Chirico, Paul Klee, Franz Albers, Alfred Kubin e Felicien Rops. È uno sguardo sulle forze della natura e la loro potenza, registrate e cantate con essenziale immoralità. La componente narcisistica è ovviamente scontata: oltre alle numerosissime fotografie che colgono l’artista nudo in diverse posizioni plastiche è la sua stessa casa che si apre ad essere lo scenario di questa recitazione mitologica e Isadora Duncan, come Salomè, calpesta nuda i pavimenti danzando alla presenza del solo von Stuck, in posa, come novello Erode.
Dopo essermi appagato per l’ennesima volta – la reiterazione dello sguardo è diventata ormai rito – richiudo il catalogo, ma non passerà tanti giorni che lo riaprirò, sempre a quella pagina, la 116.